Roe v. Wade: una storia della libertà delle donne
La lotta tra il diritto ad abortire e gli istinti moralizzatori della politica ha un passato tormentato. Ne dipende il controllo sulle scelte e la salute della donna.
Anche se ormai erano mesi che ci si aspettava una cosa del genere, la bozza di sentenza della Corte Suprema finita su Politico che ribalterebbe Roe v. Wade ha colpito come un fulmine a ciel sereno un dibattito già estremamente polarizzato. Si diceva che quest’anno i temi delle primarie sarebbero stati l’inflazione e i diritti educativi dei genitori. Si aggiunga ora ufficialmente l’aborto. Qualsiasi cosa accada, che sia confermata o meno la sentenza, la strada è aperta per il ribaltamento di cinquant’anni di successi nel garantire diritti individuali in campo sessuale, riproduttivo e di espressione di genere.
La chiave è la base legale di Roe v Wade che il giudice Alito ha messo in discussione, cioè la dottrina del substantive due process applicata per riconoscere un diritto costituzionale alla privacy. Stabilito da Griswold v. Connecticut nel 1965, all’epoca servì ad annullare un divieto statale all’uso di contraccettivi per persone sposate. La stessa base è stata poi usata anche per Lawrence v. Texas, che annullò le leggi anti-sodomia e per la stessa Obergefell v. Hodges, che ha stabilito la legalità del matrimonio per coppie dello stesso sesso.
Il fatto che queste sentenze condividano basi legali e linguaggio non è un caso. Negli Stati Uniti il diritto all’aborto è il cuore di una secolare e molto più ampia lotta per il diritto all’autodeterminazione sessuale della persona. Non è un caso nemmeno che questa crisi riguardo l’aborto avvenga in un momento in cui un’erosione della libertà sessuale è in atto in tutti gli stati governati dal partito Repubblicano. L’aborto è infatti già fortemente limitato, libri a contenuto LGBTQ vengono cancellati dai curriculum scolastici ogni mese, legislature statali hanno messo in campo iniziative per punire persone trans e le associazioni che le supportano, in alcuni casi autorizzando inchieste su genitori che accedono a servizi sanitari trans-affirming.
È in atto un attacco come non si vedeva dai tempi del Comstock Act del 1873, perorato da Anthony Comstock della New York Society for the Suppression of Vice, che proibì la vendita di oggetti “osceni”, tra cui contraccettivi, strumenti per abortire fino anche agli opuscoli a tema. Anche quello non fu un fulmine a ciel sereno. Tanti stati avevano infatti cominciato a rendere illegale l’aborto già prima della guerra civile, in un momento in cui la comunità medica maschile era impegnata a codificare la professione e decidere a cosa non essere associata, principalmente il lavoro svolto dalle levatrici, e quindi anche l’aborto.
A dispetto dei pregiudizi che abbiamo riguardo l’età pre-industriale, studi storici hanno dimostrato quanto quella americana fosse tutto tranne una società sessualmente repressa tra il ‘700 e l’800. C’era una fiorente produzione pornografica, poligamia e divorzio non erano cose fuori dall’ordinario, persone queer potevano a volte vivere la propria sessualità, purché nella privacy delle proprie case, gravidanze e parto erano indiscussa responsabilità delle donne. Essendo una società per più del 90% rurale, almeno fino alla metà del XIX secolo, la vita di una donna ruotava intorno al suo ruolo domestico. Scrive la storica Jane Kamesky «quando in America si scriveva di matrimonio a fine ‘700, se ne parlava come di una partnership tra due persone con ruoli diversi, con la donna responsabile di tutti gli aspetti della gestione della casa e della famiglia, inclusa la cura dei malati, la formazione dei bambini e soprattutto la riproduzione».
Naturalmente si parla di donne libere, le milioni in catene invece non avevano diritto o controllo alcuno. La separazione netta dei ruoli di genere poneva le donne al di fuori della comunità politica, anche se la rivoluzione e il processo costituzionale posero le basi per la discussione lunga un secolo su chi fosse incluso in quel «tutti gli uomini sono creati uguali». Probabilmente nel 1776 quando Abigail Adams rispondeva «remember the ladies» al marito John Adams che le annunciava la Dichiarazione di Indipendenza, non intendeva includere il diritto di voto. Tuttavia, la Rivoluzione per la prima volta impiegava linguaggi di cui le donne libere potevano appropriarsi per difendersi dal dominio, prima di allora senza limiti, del marito. La lotta alla violenza domestica e per il ruolo della donna nella vita famigliare è infatti una costante del dibattito politico femminile per gran parte dell’800.
Tra le responsabilità famigliare delle donne ricadevano sicuramente la gravidanza, la sua cura e il parto. I medici uomini cominciarono a giocare un ruolo preminente piuttosto tardi e solo nei casi in cui la famiglia potesse permetterselo. Le donne andavano incontro a plurime gravidanze, con tutti i rischi associati. La mortalità materna era infatti altissima. Il parto poteva benissimo diventare una condanna a morte. Non è quindi un caso che in una società in cui una donna viveva almeno due decenni con il rischio costante di una gravidanza difficile, venisse praticato quello che oggi chiameremmo pianificazione famigliare. La storica Cornelia Hughes Dayton ha dimostrato come l’aborto fosse molto comune a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. Era raro che si finisse davanti ad un giudice per questo. Quando succedeva era perché veniva usato per dimostrare il cosiddetto prior sin, il peccato sessuale prematrimoniale, che poteva far annullare contratti in essere tra famiglie.
Senza la mediazione della tecnologia o della medicina così come codificata decenni dopo, le donne avevano imparato da secoli a pianificare e gestire la propria fertilità, attraverso l’astinenza, erbe, un uso prolungato dell’allattamento, primitivi metodi anticoncezionali, alcuni pubblicizzati anche sui giornali, e appunto l’aborto, praticato da altre donne nella stragrande maggioranza dei casi.
Tuttavia, come accennato prima, la reazione arrivò da una combinazione della codificazione ufficiale della professione medica e delle conseguenze dei cosiddetti Secondo e Terzo Grande Risveglio. Questi furono revival religiosi di natura protestante che andarono a definire la politica della seconda metà dell’800, portando con sé forti venti di riforma sociale. Questa nuova spiritualità cristiana predicava il raggiungimento della salvezza attraverso il perfezionamento morale della società, qualcosa che anticipava i temi del Social Gospel di inizio ‘900. Questo tipo di attivismo influenzò tutti i movimenti di riforma ottocenteschi, dall’abolizionismo al Temperance movement. Allo stesso tempo però, lo sforzo di imporre alla società standard morali religiosi portò anche alla prima grande ondata di leggi antiabortiste che culminò nel Comstock Act nel 1873.
Nel 1821 l’aborto era illegale solo in Connecticut. Nel 1868 in 27 stati su 37. Nel 1900 ogni singolo stato aveva reso illegale interrompere la gravidanza. Naturalmente la legge non pose fine alla pratica, la relegò semplicemente nella clandestinità. Nel 1930, l’aborto era la causa ufficiale della morte di quasi 3000 donne, un quinto delle donne morte quell’anno per cause legate a gravidanza e parto. Solo l’avvento degli antibiotici fece calare quel numero, ma in modo non uniforme. Classe ed etnia erano fattori decisivi per quanto riguarda strumenti a disposizione e risultato finale della procedura. Tra le comunità afroamericane e ispano-americane di inizio anni ’60 il 50% della mortalità materna era causata da aborti illegali, contro il 25% per le donne bianche.
Negli anni ’60 si cominciarono a vedere le prime aperture legali. In molti stati l’aborto fu consentito in caso di pericolo di salute della donna, ma la procedura per ricevere l’approvazione davanti ad una commissione, che includeva anche uno psichiatra, era fuori portata di tantissime. Tuttavia, decenni di lotte e attivismo cominciavano a produrre i loro frutti. Alaska, Hawaii, New York e Washington abolirono le proprie leggi antiabortiste a inizio anni ’70, dando inizio ad un esodo, soprattutto verso New York che non aveva limiti legati alla residenza, di donne che vivevano in stati proibizionisti. Chi poteva permetterselo poteva acquistare pacchetti di viaggio per l’Europa, soprattutto la Gran Bretagna, dove l’aborto era diventato legale nel 1967.
Questo finché nel 1973 la Corte Suprema sentenziò riguardo il caso di una giovane donna del Texas, Norma McCorvey, registrata con lo pseudonimo di Jane Roe, presentato contro il procuratore distrettuale Henry Wade in rappresentanza dello stato. La sentenza, a favore del diritto di una donna a non essere punita per aver liberamente deciso di abortire, generò un terremoto politico che scatenò una reazione che dura ancora oggi. Nel 1976 l’Hyde Amendment proibì la pratica a chi dipendeva dal Medicaid, quindi le persone povere. Nello stesso periodo televangelisti, personalità antifemministe come Phyllis Schlafly e in generale un nuovo fervore religioso protestante cominciarono ad appropriarsi lentamente della piattaforma programmatica del partito Repubblicano. Ronald Reagan nel 1967 aveva firmato una delle leggi più permissive sull’aborto pre-Roe. Nel 1980 il partito di cui era a capo era ormai quello dell’attivismo antiabortista, insieme a parti non trascurabili del partito Democratico.
Da allora fino ad oggi tentativi locali di rendere illegale la pratica sono stati all’ordine del giorno, attraverso l’uso di strumenti retorici atti a cambiare prospettiva riguardo ciò che l’aborto è in realtà, cioè la libera scelta di una donna di interrompere una gravidanza. Immagini e slogan provocatori, espressioni come “partial birth abortion”, per indicare aborti dal secondo trimestre, la promozione di cosiddette “heartbeat bills”, che vietano aborti dopo la sesta settimana, hanno cambiato profondamente i termini del dibattito pubblico, allontanandolo dalla medicina e dalla salute della donna col fine di dipingere gli attivisti pro-choice come infanticidi.
Solo se si guarda a questa storia come un processo politico pluridecennale si può comprendere il perché una nomina alla Corte Suprema da parte di uno o un altro presidente sia diventato campo di scontro così violento nella società polarizzata dell’America contemporanea. Lo sconvolgimento della Corte da parte di Donald Trump ha dato infatti al movimento antiabortista una chance che attendeva e che preparava da cinquant’anni. Al momento sette stati hanno già pronte leggi che rendono illegale l’aborto in ogni circostanza da firmare nel momento in cui Roe venga ribaltata. Questo in un Paese in cui l’aborto è già difficilissimo da ottenere, con tanti stati in cui c’è una sola clinica disponibile per la procedura.
Si può ben dire che il movimento antiabortista è tra quelli che avuto il maggior successo nella storia del paese nel trasformare profondamente la politica e la cultura americana. A tal punto da rendere possibile per la seconda volta che un’interpretazione minoritaria della morale cristiana torni a restringere i confini di libertà personale della donna. Anche perché ricordiamo che gli Americani rimangono in maggioranza a favore del diritto ad abortire, come anche del matrimonio egualitario, del libero accesso alla contraccezione e all’educazione sessuale nelle scuole. La speranza è che, nel caso Roe v. Wade venga davvero revocata o soltanto svuotata, non ci voglia quasi un secolo per riparare i danni enormi che ne risulteranno.
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