Robin Hood al contrario: chi paga davvero la One Big Beautiful Bill?
Una riforma da un trilione di dollari che taglia le tasse ai ricchi, riduce la spesa sociale e rimescola gli equilibri economici globali: dentro la maxilegge di Donald Trump
Nel lessico trumpiano, l’aggettivo “beautiful” è un passepartout. Può indicare un muro di confine, un trattato commerciale o, da questo 4 luglio, una manovra da oltre un trilione di dollari che ridisegna la struttura fiscale degli Stati Uniti. È la One Big Beautiful Bill Act (da qui in avanti OBBBA per comodità) e, nonostante l’enfasi celebrativa, non tutti la considerano una meraviglia. In particolar modo, chi non guadagna sei zeri all'anno.
Il cuore della riforma è un imponente pacchetto di tagli fiscali, che estende in modo permanente molte delle agevolazioni introdotte con il Tax Cuts and Jobs Act del 2017. Tuttavia, se nel 2017 i benefici erano distribuiti in modo più orizzontale, oggi la OBBBA concentra i vantaggi fiscali sulle fasce più alte della popolazione, mentre riduce la spesa sociale in modo da compensare – almeno sulla carta – l’aumento del disavanzo. In altre parole, è a tutti gli effetti una riforma regressiva.
I maggiori beneficiari della nuova legge sono i contribuenti con redditi superiori ai 400.000 dollari, che godranno di una riduzione dell’aliquota marginale effettiva, oltre all’innalzamento del tetto per la deducibilità statale e locale, fissato a 40.000 dollari per i redditi inferiori al mezzo milione. Il dato è confermato dalla Tax Foundation che, pur adottando una lettura favorevole alla riforma, evidenzia l’aumento netto di reddito disponibile concentrato nei decili superiori.
In altre parole, chi ha già molto ne trae maggior beneficio. Chi ha poco, e ancor di più chi ha nulla, vede promesse sulla carta svanire nel mondo reale. È il caso della deduzione per le famiglie con figli, aumentata a 2.200 dollari e indicizzata all’inflazione: una misura che potrebbe sembrare progressiva, ma che nella pratica avvantaggia solo chi ha un carico fiscale sufficiente da trarne beneficio. Per le famiglie a basso reddito, che spesso non raggiungono soglie di tassazione tali da rendere utili queste deduzioni, l’impatto è minimo.
Il quadro diventa ancora più sbilanciato se si guarda all’altro lato della medaglia: i tagli alla spesa. La OBBBA prevede una riduzione del 12 per cento al budget di Medicaid e una trasformazione del programma che, come illustrato da Politico, ora richiede almeno 80 ore mensili di lavoro documentato per mantenere l’idoneità, con controlli bimestrali automatizzati. Il tutto con l’effetto previsto e confermato dalla stima del Congressional Budget Office di oltre 10 milioni di disiscritti nei prossimi dieci anni.
I dati del Center on Budget and Policy Priorities dipingono il quadro di una redistribuzione al contrario. Un simile approccio, che combina riduzione delle entrate con contrazione delle prestazioni, è una forma di fiscalità inversa. La tassa non sta solo in ciò che si paga, ma in ciò che si perde: cure mediche, assistenza alimentare, sicurezza economica, e in questo caso a perderci sono quasi esclusivamente i cittadini a basso reddito.
La riforma ha anche conseguenze macroeconomiche. Il Congressional Budget Office prevede un aumento del debito pubblico pari a 2.800 miliardi di dollari entro il 2034, solo per effetto dei tagli fiscali non compensati da coperture strutturali. Il rischio non è soltanto teorico. La Federal Reserve ha già lasciato intendere che dovrà mantenere tassi più alti per fronteggiare le pressioni inflazionistiche legate all’espansione della domanda aggregata, mentre il Tesoro ha aumentato l’emissione di titoli di debito a breve termine, con rendimenti saliti sopra il 4 per cento per i T-bills a 6 mesi.
Chi ne paga il conto? Sempre gli stessi. L’aumento del debito pubblico non si traduce in costi uguali per tutti. I cittadini a basso reddito subiscono il massimo impatto per i tagli alle prestazioni pubbliche che saranno necessari per coprire le sempre maggiori spese per interessi da parte dello Stato, mentre quelli ad alto reddito si tutelano tramite investimenti e coperture assicurative. È lo schema della trappola regressiva: il beneficio fiscale è per pochi, ma il costo sociale lo pagano tutti.
A complicare ulteriormente il quadro, la legge include misure di riduzione fiscale che favoriscono comportamenti già associati ai ceti abbienti. Ne è un esempio la detrazione fino a 10.000 dollari per interessi su prestiti auto, riservata a veicoli prodotti in USA. Una misura che sostiene sì l’industria, ma che nei fatti esclude chi ha minori risorse e acquista auto usate o modelli a basso costo. Ancora più marcato è il caso del bonus una tantum per gli strumenti di risparmio per minori, che prevedono fino a 5.000 dollari di contribuzione deducibile. I nuclei a basso reddito, che già faticano ad accumulare risparmio, difficilmente potranno beneficiarne.
Il disegno complessivo appare coerente con l’agenda fiscale promossa dai think tank legati a Project 2025. Una visione che punta a un ridimensionamento della spesa federale, abbinato a una riduzione dell’imposizione sui redditi da capitale e sui grandi patrimoni che, nel farlo, accetta consapevolmente di aumentare la distanza tra chi ha accesso a strumenti finanziari e chi dipende dai trasferimenti pubblici.
Il punto è che questa riforma non nasce da un’esigenza fiscale, ma da un’impostazione ideologica. Come osserva The Atlantic, la OBBBA è meno una manovra e più una dichiarazione di intenti: non è solo una politica, è una filosofia fiscale in forma di legge. In questo senso, l’etichetta “beautiful” è più che uno slogan.
Tuttavia, le implicazioni della Big Beautiful Bill non si esauriscono all’interno dei confini statunitensi. Il riposizionamento fiscale ed energetico voluto da Donald Trump ha già cominciato a produrre effetti sul piano internazionale, alterando i rapporti tra le grandi economie e modificando la traiettoria della competizione globale.
La decisione di smantellare gran parte degli incentivi verdi introdotti dal Inflation Reduction Act si tramuta in un’opportunità industriale per il Dragone. Come sottolineato dal New York Times, l’abbandono dei crediti d’imposta federali per la produzione e l’acquisto di veicoli elettrici, turbine eoliche, batterie e pannelli solari toglie slancio all’industria americana delle rinnovabili, aprendo un vuoto nel mercato globale che la Cina è pronta a colmare. Il Paese asiatico ha già consolidato la sua leadership nelle catene di fornitura del litio, del silicio e delle tecnologie verdi e con la ritirata americana può espandere il proprio dominio commerciale, sottraendo all’Occidente la possibilità di costruire un’autonomia energetica sostenibile.
La mossa americana viene così letta a Pechino come un auto-sabotaggio competitivo. Gli investitori, consapevoli dell’incertezza normativa negli Stati Uniti, stanno spostando capitali verso mercati dove la transizione ecologica è ancora sostenuta da politiche pubbliche coerenti, tra cui la Cina stessa.
Se l’Asia guarda con opportunismo alla riforma americana, l’Europa la osserva con inquietudine. I mercati finanziari del vecchio continente, già provati da un contesto instabile, rischiano di subire un doppio contraccolpo.
Primo, per via della volatilità del dollaro. L’aumento del disavanzo pubblico statunitense e l’instabilità legata alla OBBBA hanno contribuito a indebolire il dollaro sul mercato dei cambi, spingendo l’euro verso i massimi dell’ultimo triennio. Una valuta forte, in tempi di crescita anemica e di dipendenza energetica, rappresenta un freno alle esportazioni europee e alla competitività dell’industria manifatturiera. Gli esportatori dell’eurozona, teoricamente avvantaggiati da un’America in espansione, si trovano invece di fronte a un mercato più chiuso, protetto da dazi e da crediti interni.
Secondo, sul piano degli investimenti diretti esteri. Il piano fiscale americano, pur criticato per la sua regressività interna, contiene misure attrattive per le imprese, incluse estensioni dei crediti per investimenti in attività strategiche, deduzioni accelerate e protezioni da imposte internazionali. Questo, insieme alla continua e più volte rinviata minaccia di dazi iperbolici, comporta una scelta lose-lose per molte aziende europee, costrette a decidere se rinunciare a vendere negli Stati Uniti o a delocalizzare parte della produzione in America, in entrambi i casi generando costi e perdendo posti di lavoro in Europa.
La One Big Beautiful Bill è quindi molto più di una riforma iniqua: è una scelta di campo che amplia le disuguaglianze interne e altera gli equilibri globali. Premia chi ha già, penalizza chi dipende, e nel farlo ridisegna i rapporti di forza tra Stati, industrie e mercati. Lo fa con un sorriso fiscale per i ricchi e le loro aziende, mentre apre una nuova stagione di fratture sociali e internazionali.