Robert Redford, il bravo ragazzo che doveva scegliere
L'attore e regista ,scomparso ieri a 89 anni, incarnava perfettamente l’uomo che cerca la verità, che scava nel sogno americano per vederne le crepe.
In un mondo perfetto Hubbell Gardiner (Robert Redford) avrebbe scelto di passare il resto della sua vita con Katie Moroski, la ragazza ebrea dai capelli selvaggi e dagli alti ideali politici, interpretata da una luminosa Barbra Streisand, nel capolavoro di Sydney Pollack Come eravamo (1973).
Invece fece l’errore più grande: accettò la tranquillità di una vita borghese, accanto a una donna che non amava, per rincorrere una carriera e un’agiatezza che non avrebbe mai raggiunto.
Uno dei grandi meriti cinematografici di Robert Redford, scomparso all’età di 89 anni, è proprio questo: aver portato sul grande schermo il conflitto dell’uomo borghese americano. Che è poi il vero conflitto dell’intero Paese e di ogni singolo cittadino: conformarsi alle regole, adattarsi all’ambiente, o fare ciò che è giusto?
Redford era figlio della solida classe media statunitense: cresciuto in California, appassionato di pittura, ottimo atleta e affascinato dall’Europa e dalla natura selvaggia, dopo gli inizi in teatro, incontrerà il regista Sydney Pollack, con il quale instaurerà un lungo sodalizio e un’altrettanta lunga amicizia, culminata nella fondazione del Sundance Institute.
Aveva il volto perfetto del bravo ragazzo, sicuro di sé, fintanto che la realtà non lo metteva di fronte a una scelta morale, esistenziale.
È così persino nella commedia che lo rese una star internazionale A piedi nudi nel parco (1967), in cui interpreta Paul, giovane avvocato appena sposato, alle prese con le prime difficoltà matrimoniali e, soprattutto, con una visione della vita, molto diversa rispetto a quella di sua moglie Corie. L’attaccamento alle convenzioni sociali e il bisogno continuo di fare le cose come si sono sempre fatte, si scontrano con l’esuberanza e il coraggio della sua consorte, desiderosa di vivere appieno il loro rapporto.
Nella sua aderenza quasi totale ai quesiti morali della media borghesia, è riuscito a creare un nuovo tipo di eroe, di cui la New Hollywood aveva fortemente bisogno: l’uomo che cerca la verità, che scava nel sogno americano per vederne le crepe e che ne esce cambiato, ma tutto sommato indenne.
Come nel caso di Bob Woodward in Tutti gli uomini del presidente (Alan J.Pakula, 1976) o di Joseph Turner in I tre giorni del Condor (Sydney Pollack, 1975); o nel “minore” Brubaker (Stuart Rosenberg, 1980), in cui si immerge nella corruzione e nelle terribili condizioni di un carcere in Arkansas.
Per Robert Redford scegliere significa soprattutto mettere lo spettatore in una posizione scomoda, quel tanto che basta a fargli capire che la verità ha sempre un prezzo. E per farlo poteva contare sul volto rassicurante di chi nella vita sembrava destinato a ottenere tutto.
Il malessere che attraversa i suoi personaggi, non urla, non scalcia, non trasfigura i volti, non lascia segni di follia. È, invece, un disagio sordo, una voce onnipresente che sussurra all’orecchio, che ci mette di fronte a dubbi morali ed etici, che ci avverte che le cose sono più complicate di come appaiono, che il denaro avvelena, il potere corrode e i buoni non sono quelli che pensiamo; che la strada battuta, la vita semplice, gli amori lineari, non sono quasi mai la risposta giusta.
Non è un caso che il passaggio di testimone avvenne con l’altro bravo ragazzo hollywoodiano, ma della generazione precedente, Paul Newman, negli indimenticabili Butch Cassidy (George Roy Hill, 1969) e La stangata (sempre George Roy Hill, 1973).
Anche come regista Redford si muove nei medesimi territori: senza il suo aspetto a rassicurare il pubblico, può permettersi talvolta di fare brevi incursioni in emozioni più cupe o cercare di immergersi nelle pagine dimenticate della storia statunitense, come in The conspirator (2010) o in La leggenda di Bagger Vance (2000).
Quando le rughe cominciano a segnargli il volto, le certezze diventano ancora più solide: l’idea non è più solo mostrare al mondo le crepe di una nazione che sembrava perfetta, né tantomeno interpretare personaggi di fronte a una scelta.
Il suo progetto è ancora più ambizioso: e i dilemmi morali diventano il pretesto per costruire la prima e unica realtà dedicata al cinema indipendente, il Sundance (Institute e Festival) in cui permettere a quella voce che sussurra all’orecchio di arrivare a tutti.