I rischi ambientali della guerra in Ucraina
Dal pericolo nucleare alla dispersione di rifiuti tossici: gli effetti indiretti del conflitto russo-ucraino.
Perché solo di fronte a una guerra ci siamo interrogati finalmente sulla necessità di procedere spediti verso una diversificazione energetica? Il campanello d’allarme sarebbe dovuto suonare già nel 2014, quando solo i più lungimiranti analisti avevano intravisto il rischio di una possibile escalation sul territorio ucraino dopo la crisi in Crimea. Eppure, allora la Russia fu da molti giudicata un fornitore affidabile e fu anzi rafforzata la dipendenza energetica europea dalle sue fonti, tuttavia prevedendo lo sviluppo di gasdotti che aggirassero i confini ucraini.
Prescindendo dalle conseguenze catastrofiche che avrebbe comportato – e tutt’ora comporta – l’assenza di un piano strategico internazionale per la transizione energetica e focalizzandosi solamente sulle ragioni geopolitiche della scelta europea, non se ne capirebbe comunque la logica. Perché l’Unione ha fondato parte della sua esistenza sulla garanzia di un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, a livello commerciale e militare, ma ha contemporaneamente cercato e voluto ritagliarsi un proprio ruolo all’interno della sfera d’influenza globale, scendendo a patti con sé stessa per garantire il proprio sviluppo. Un’Unione volutamente cieca davanti alla degenerazione del putinismo oltreconfine, risvegliatasi dal suo torpore solo di fronte al conflitto militare.
A circa due settimana dall’inizio degli scontri in Ucraina – precisamente l’8 marzo – la Commissione Europea ha deciso di reagire, con un piano d’azione strategica. Le iniziative puntano a rinnovare rapidamente la regolamentazione sovranazionale nel settore energetico e a ridurre drasticamente la dipendenza europea dalle fonti russe. Le parole chiave sono efficienza (energetica) e semplificazione (della regolamentazione sovranazionale); l’obiettivo è quello di consentire più aiuti di Stato, promuovere lo stoccaggio di gas sui territori interni e attirare investimenti sulle rinnovabili.
L’inasprimento del conflitto in Ucraina ci pone per la prima volta davanti a uno dei più grandi dilemmi di questo secolo: come può l’Europa smarcarsi dalla dipendenza energetica dalla Russia? Potrebbe affidarsi all’esportazione statunitense di gas naturale liquefatto, ma non tutti i Paesi dispongono dei necessari rigassificatori per poter usufruire di questa risorsa, e tra questi c’è sicuramente l’Italia. Nel frattempo, l’industria petrolifera e del gas statunitense sta approfittando della guerra per chiedere un aumento della produzione interna di fonti fossili, nonostante il forte impegno preso in campagna elettorale dall’amministrazione Biden per ridurre lo sfruttamento dei giacimenti nazionali e l’effettivo blocco delle trivellazioni (ne avevamo parlato qui).
L’American Petroleum Association – la più importante organizzazione lobbistica nel settore petrolifero – ribadisce l’urgenza di oltrepassare gli impegni presi per scongiurare un aumento incontrollato dei prezzi del petrolio. Al lato opposto, chi da tempo chiede di investire massicciamente sulle fonti rinnovabili, fa presa sulla maggiore stabilità dei prezzi dell’energia verde. L’argomento comune rimane quello del dominio energetico dell’America, un ricordo ormai lontano e che, solo per chi ha la vista miope, rappresenta ancora «l’arma più potente contro Putin»[1].
Volgere lo sguardo al Vecchio Continente e convincere l’Europa a investire sulle rinnovabili sarebbe per gli Stati Uniti un modo per scalfire definitivamente la dipendenza energetica che ci lega alla Russia. Una strategia di più ampio respiro, in un mondo che ha sempre più bisogno di risorse rare e nel quale nuovi equilibri vengono a formarsi fuori dai confini russi e statunitensi e sempre più all’interno dell’area di influenza del Dragone. La Cina, nel suo ruolo da mediatrice, è stata a guardare ed è pronta a giocare le sue carte. Tra le possibili strategie che Pechino potrebbe adottare, ci sarebbe quella di legarsi sempre di più alla Russia acquistando non solo una quantità maggiore di sue risorse naturali ed energetiche, ma anche più quote di società come Gazprom, che in questi giorni hanno visto crollare le proprie quotazioni nelle principali borse.
Il freddo calcolo economico che guarda alla crisi energetica e ai suoi rimbalzi sulla vita dei cittadini dimentica però gli effetti più devastanti sulla collettività, legati indubbiamente ad altri fattori. Il terrore nucleare è tornato a farci visita quando le truppe russe hanno bussato alle porte della centrale nucleare di Chernobyl prima e Zaporižžja poi. A Zaporižžja c’è la centrale nucleare più grande d’Europa, quinta nel resto del mondo. Un complesso mastodontico che conta sei reattori in grado di generare circa metà dell’elettricità prodotta in tutta l’Ucraina. Da qui è partito un autobus alcune notti fa diretto al valico Fernetti, vicino Trieste, a casa nostra. Portava un carico di ottanta donne e bambini, si è lasciato alle spalle padri e mariti a difendere il proprio Paese.
Nella notte tra il 3 e il 4 marzo missili russi avevano poi colpito un edificio secondario adiacente alla centrale di Zaporižžja, provocando un incendio all’interno del complesso, rimasto fortunatamente circoscritto a quell’area. La comunità internazionale sta mantenendo altissima l’attenzione su Chernobyl, dove si ipotizzava che l’impianto di raffreddamento dei reattori ancora attivi potesse essere in pericolo per mancata fornitura dell’elettricità indispensabile al loro funzionamento e che in realtà, in caso di necessità, sono automaticamente sostituiti da generatori di emergenza. Tuttavia, la centrale di Zaporižžja – nel momento in cui si scrive – ha smesso di trasmettere dati all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, come da protocollo, da più di 24 ore. Anche qui, alimentatori di emergenza possono far fronte alla mancanza di elettricità, tuttavia hanno una capacità di alimentazione che non supera le 48 ore, passate le quali il rischio di perdite di radiazioni cresce.
Il terrore psicologico è una costante delle guerre e sicuramente è una delle colonne strategiche dell’esercito russo. Un rischio incontrollato che degeneri in attacchi mirati a Chernobyl, Zaporižžja e alle altre centrali nucleari ucraine, secondo molti analisti è poco probabile, non lo è tuttavia la possibilità di incendi massicci nella foresta che circonda Chernobyl. Quest’area è conosciuta con il nome di “Foresta rossa” per il color ruggine che i pini hanno assunto a causa delle radiazioni. La foresta si estende a 30 km dall’ex centrale e il suolo presenta ancora forti livelli di radioattività, contenendo più del 90% dei radionuclidi prodotti dall’esplosione del 1986. La vegetazione ha continuato a svilupparsi ma continua ad assorbire inevitabilmente i radionuclidi presenti nel terreno, come il cesio-137 e gli isotopi di plutonio e uranio. Qui, in caso di incendio, fumo e cenere radioattivi potrebbero essere trasportati a centinaia o addirittura migliaia di chilometri di distanza. È una polveriera a cielo aperto che difficilmente potrebbe essere contenuta dallo scarno personale dei vigili e operatori presenti sul territorio, estremamente vincolati dall’ingerenza dell’esercito russo.
Una ricerca del 2011 condotta da Sergiy Zibtsev, docente ucraino di silvicoltura e Chad Oliver, direttore del Global Institute of Sustainable Forestry di Yale, prevedeva che un incendio che avesse colpito tutta la Foresta rossa avrebbe potuto ricoprire di fumo la capitale ucraina, contaminando irreparabilmente i terreni coltivati, avvelenando la produzione agricola fino a 150 km di distanza. Prove generali di un possibile disastro hanno avuto luogo nell’aprile del 2020, quando a causa della riduzione dei livelli di umidità nell’area, quasi 61.000 ettari di terreno sono stati distrutti, soffocando Kiev e le città limitrofe. Materiale radioattivo potrebbe essere rilasciato anche da attacchi a siti industriali, basi militari e ospedali mentre un’altra ipotesi è che la Russia decida di usare munizioni all’uranio impoverito, in grado di causare morte da soffocamento.
In passato più volte movimenti e organizzazioni ambientaliste si sono rivolte alla Corte Penale Internazionale dell’Aia per affrontare casi di disastri ecologici. All’inizio dell’attuale conflitto oltre 1000 organizzazioni e individui provenienti da 75 paesi diversi hanno rilasciato una lettera aperta in cui esprimevano la loro preoccupazione per i rischi ambientali generati dalla guerra. Concretamente, colpendo edifici, strutture industriali attive o dismesse, siti di stoccaggio di prodotti chimici e combustibili, vi è dispersione certa di materiali e sostanze tossiche nell’atmosfera, nell’acqua e sulle superfici. Si aggiunga poi la possibile volontà da parte russa di colpire gli impianti di produzione elettrica, come le centrali idroelettriche e le dighe ucraine, alcune delle quali sono veri e propri giacimenti di scarti di mine tossiche e altri rifiuti pericolosi per l’ambiente. A tal proposito, un rapporto pubblicato negli ultimi giorni dallo stato maggiore delle forze armate ucraine, ha segnalato l’intenzione dell’esercito russo di impadronirsi della diga della centrale idroelettrica di Kaniv, a circa 150 chilometri a sud di Kiev, sul fiume Dnepr.
I rischi ecologici non sembrano rientrare nelle previsioni del Cremlino che sta incentrando la propria strategia militare anche sull’appropriazione di centrali nucleari ed elettriche, non solo per poter controllare la fornitura energetica del Paese e piegare i civili, ma anche per potersi difendere da eventuali attacchi aerei e ridurre al minimo le proprie perdite. Nel frattempo, soldati russi e operatori ucraini tenuti in ostaggio nelle centrali sono già stati esposti alla polvere innalzata dallo spostamento dei mezzi pesanti russi che, seppur in minime quantità e a livelli molto bassi, possono compromettere irreparabilmente la salute umana.
La Terra rimane in silenzio a guardare, inerme di fronte alla brutalità umana, vittima anch’essa del delirio di onnipotenza individuale, da sempre nemico della nostra specie. Le radici del conflitto in Ucraina - com’è noto - affondano anche nella necessità di assicurarsi approvvigionamenti infiniti di risorse naturali e rare. L’oro nero del bacino del Donec, prima regione a cadere nelle mani russe e finire sotto il controllo dei suoi governatori fantoccio, è una delle primarie ragioni che spiegano l’intervento del Cremlino; ma non è la sola. Credere che questa guerra sia prevalentemente un conflitto per l’appropriazione di risorse energetiche, significherebbe non comprendere appieno la natura della Russia di Putin e di chiunque verrà dopo di lui.
La rivoluzione arancione, negli anni successivi al 2004, ha messo in moto un meccanismo di autodifesa nell’entourage putiniano e, più in generale, nella burocrazia russa: un automatismo figlio dello zarismo e della fobia della destituzione del potere (e dell’ordine) costituito. Tenerlo presente ci consente di capire allo stesso modo le ragioni del rifiuto storico del cambiamento climatico, l’accettazione del quale avrebbe portato alla fine dei privilegi esercitati da parte di chi ha costruito la propria ricchezza sullo sfruttamento delle risorse naturali e non del proprio Paese.
Fuori da improbabili congetture, la guerra in Ucraina potrebbe segnare la fine politica di Putin, ma non del putinismo, in grado – allo stato attuale – di rigenerarsi all’infinito. Se l’ora più buia cingerà il Cremlino, sarà proprio nell’oscurità che acquisterà nuova linfa vitale.
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[1] A dirlo è stata Cathy McMorris Rodgers, rappresentante repubblicana dello Stato di Washington.