La relazione pericolosa: Francia e Nato
Dopo il secondo turno delle presidenziali, la Francia si barcamena nella crisi di senso dell’Alleanza Atlantica, tra tradizioni gaulliste e ispirazioni riformiste.
Mario Del Pero scrisse nel 2018 che l’intera storia dell’Alleanza Atlantica «è in fondo segnata dalla costante tensione prodotta dal fragile baratto tra i privilegi semi-imperiali che essa garantisce agli Usa e la protezione quasi gratis di cui beneficiano i loro alleati». La frase riassume sia i motivi materiali per cui l’alleanza è sopravvissuta, sia i problemi che ne minano l’unità di intenti e azione.
Di questi tempi, soprattutto alla luce dell’uso della presenza della NATO in Est Europa come pretesto per la rinnovata politica di potenza da parte di Vladimir Putin a scapito dei propri vicini, abbiamo potuto vedere un ripresentarsi della discussione riguardo il perché esiste ancora la NATO e perché ci siamo dentro.
Al di là dei tanti momenti di tensione che le relazioni atlantiche hanno visto in 80 anni, la scomparsa dell’URSS non mise in discussione l’idea che l’alleanza costituisse non solo un legame politico e militare, ma «l’incarnazione di un destino comune finalmente realizzatosi». È stata semmai la gestione della “guerra al terrore” e il progressivo (conseguente) disimpegno americano ad aprire nuovi interrogativi su quel baratto di cui sopra. Esiste ancora una partnership atlantica, che per decenni è andata a definire la stessa idea di Occidente, tale da agire da fondamento sia del beneficio dell’articolo 5 sia delle richieste americane di maggiore coinvolgimento dei budget nazionali a quello dell’alleanza? Oppure il fatto che queste parole significhino cose diverse a Parigi, a Washington e a Varsavia è un segnale che qualcosa va profondamente cambiato?
L’invasione russa dell’Ucraina ha fornito una parte della risposta. Putin aveva puntato sulla crisi di senso dell’alleanza per risolvere con un’azione decisa e fulminea la “questione ucraina”, rilanciare l’imperialismo russo in Europa lasciando poi l’Occidente senza altra scelta che riconoscere lo status quo. Dopotutto Emmanuel Macron nel 2019 aveva detto che la NATO era «in stato di morte celebrale», dopo aver dato il via ad un’iniziativa unilaterale di rapprochement e apertura di canali di dialogo col Cremlino interrotta solo dall’inizio dell’invasione.
Da una parte forse proprio dall’unilateralismo francese, oltre che dalla confusione politica americana post-Trump e dalla compiacenza della Germania, Putin potrebbe aver dedotto che il momento fosse propizio per un intervento. Dall’altra proprio dalla Francia ritornano, come da tradizione, spinte per una riforma strutturale della NATO, tanto da far trattenere il fiato agli alleati su entrambi i lati dell’Atlantico in attesa dei risultati del ballottaggio delle elezioni presidenziali. La vittoria di uno o dell’altra potrebbe contribuire a fornire gli elementi mancanti della risposta alle domande di prima.
Il dibattito sul rapporto tra la Francia e la NATO è dopotutto vecchio quanto l’alleanza. Il supporto verso un’organizzazione di difesa collettiva che, secondo le famose parole di Lord Ismay, doveva «tenere dentro gli americani, fuori i russi e sotto i tedeschi», non è mai stato in dubbio. Tuttavia la Francia del dopoguerra era un Paese che cercava di trovare un suo ruolo nel mondo bipolare che non la relegasse a potenza di livello inferiore, soprattutto all’interno delle strutture di comando alleato in Europa. Questa ambivalenza si manifestò pienamente nel 1966 quando De Gaulle annunciò l’intenzione di lasciare non la NATO, ma la struttura di comando militare integrato, sfrattando così migliaia di soldati americani presenti nel Paese. La Francia rimaneva nell’alleanza, manteneva un seggio nel Consiglio Atlantico, ma affermava una propria indipendenza politica e strategica in materia di risposta alle minacce esterne. «Alleati, amici, non allineati», così il generale riassunse la sua dottrina. Questo eccezionalismo all’interno dei rapporti transatlantici, parte di una visione politica condivisa dai successori di De Gaulle, non si tramutò mai in una rottura in termini militari. La cooperazione con il comando alleato rimase, come pure accordi sul controllo delle operazioni in caso di guerra in Europa. L’ambivalenza retorica permetteva ai francesi di rimanere strutturalmente integrati nell’architettura di difesa europea a guida americana, pur continuando a vantare un’indipendenza strategica.
La fine della guerra fredda fu vista come un’opportunità preziosa. La riapertura del dibattito su una possibile piena reintegrazione francese nelle strutture di comando alleato offriva la possibilità di rinegoziare la faccia dell’alleanza atlantica, in modo tale da continuare a seguire la missione riassunta da Lord Ismay, e allo stesso tempo servire anche le ambizioni europee della Francia. Europeizzare la NATO era lo spirito con cui sia Mitterand che Chirac ridiedero vita ad un processo di creazione di strumenti militari a livello comunitario europeo interrotti con il disastro della Comunità Europea di Difesa nel 1954. Il progressivo insuccesso della strategia, resa quasi impossibile nel contesto della guerra nei Balcani, diede inizio ad un periodo che è stato chiamato di creeping reintegration, accelerato soprattutto dopo l’11 settembre 2001. La Francia intervenne sotto l’egida NATO in Bosnia, Kosovo e soprattutto Afghanistan, mentre l’ammontare del contributo alle spese NATO la posizionava alla pari del Regno Unito.
Il processo di reintegrazione completa era quindi già molto avviato quando Sarkozy annunciò nel 2009 che il Paese sarebbe tornato a far parte della struttura di comando alleata dopo più di 40 anni. La cosa, accolta con entusiasmo dagli alleati, poneva però nuove domande, che trovarono spazio soprattutto nel dibattito politico interno. Parigi stava rinunciando alla tradizione eccezionalista iniziata da De Gaulle? Era cambiata la percezione che il Paese aveva di sé come non allineato? La risposta è più complessa di quanto sembri. Di certo il processo di rapprochement era andato avanti senza sosta, ma, come anche Macron ha confermato nella pratica e nella retorica, nessun Presidente ha mai rinunciato allo status distinto e indipendente della politica estera francese. D’altronde il rifiuto di Chirac di intervenire in Iraq può essere inquadrato in questa logica, tra le altre cose. La legacy di De Gaulle non è stata abbandonata, ha trovato semplicemente nuove strade per manifestarsi, usando anche una buona dose di pragmatismo.
Gli anni 10 da poco passati hanno dimostrato che l’alleanza è entrata in una fase di profondo cambiamento. L’interventismo americano su scala globale ha subito un ridimensionamento che con Trump ha trovato la sua più evidente, seppur volgare e goffa, manifestazione. Se si legge attentamente la famosa intervista all’Economist del 2019, quella della “morte celebrale”, Macron parlava in reazione a questo, ad un’Europa sonnambula che si dirigeva verso l’irrilevanza, in un mondo il cui baricentro si spostava sempre più verso il Pacifico. Da qui si comprende la spinta che il Presidente francese ha dato negli ultimi anni ad un rinnovato sforzo di Europeizzare la NATO dando un ruolo preminente all’UE, possibilmente a guida francese.
La guerra in Ucraina, alle porte orientali della comunità europea, è di per sé un’occasione d’oro di riforma, tanto da aver svegliato persino i tedeschi dal loro letargo, ma anche causa di ripensamento di questa visione. Sicuramente il focus di una NATO ritrovata è tornato in Europa dando ragione agli istinti originari della strategia francese, ma la minaccia del regime russo, con cui Macron si era sforzato di trovare un dialogo, ha esposto il suo più grande limite: il ruolo dei paesi dell’est Europa. I paesi che Milan Kundera chiamò «Occidente sotto sequestro» sono legati più all’impianto di difesa atlantica che all’Unione Europea, e i Presidenti francesi hanno dimostrato sempre scarsa empatia nei loro confronti. Quando nel 2003 vari governi firmarono lettere di supporto all’intervento americano in Iraq, un infastidito Chirac sbottò che i Paesi dell’est, all’epoca candidati a entrare in UE, avevano «perso un’occasione per stare zitti». Donald Rumsfeld non si fece sfuggire l’occasione di rispondere chiamando Francia e Germania “vecchia Europa” e “nuova Europa” invece gli Stati del defunto patto di Varsavia. Aprire il dialogo con questi Paesi ricalibrando il rapporto con la Russia e riformando la difesa europea sarà la vera sfida di questo decennio per Macron, alla ricerca della soluzione mai trovata alla scomoda ambivalenza che accompagna il Paese sin dal dopoguerra.
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