Quant’è lontana l’America di Simenon e Joan Didion
Gli Stati Uniti visti attraverso gli occhi di due scrittori diversi e lontani tra loro.
«L’America, comincio a crederlo fermamente, è un paese di brave persone, spesso modeste, che sono venute da lontano per vivere in pace, che a questa pace tengono moltissimo e che conservano gelosamente le loro tradizioni [...]». Può sembrare insolito, eppure, queste parole non sono state scritte da un cittadino statunitense innamorato della sua terra, e neppure da un candidato Repubblicano o Democratico in corsa per la Casa Bianca: l’autore, infatti, è nientemeno che Georges Simenon.
Nell’ottobre del 1945 lo scrittore belga arriva a New York, un po’ per necessità, un po’ per il desiderio di lasciare un’Europa soffocata dal recente conflitto: a spiegarne le ragioni profonde è Ena Marchi, nella nota finale che accompagna il resoconto di questo viaggio raccontato nel libro L’America in automobile (Adelphi, 2023). Tremila miglia, oltre 5000 km dal Maine alla Florida: un tragitto sulle orme di Tocqueville, inseguendo lo sguardo di un osservatore desideroso di conoscere le vere abitudini di un Paese e di documentarle attraverso parole e immagini.
A differenza dei suoi itinerari precedenti (come Europa 33 e Il Mediterraneo in barca), in cui la critica e l’osservazione tagliente di Simenon non risparmiavano niente e nessuno, le lusinghe del Nuovo Continente sembrano ingannare (o quantomeno sedurre) persino lui. A conquistarlo è soprattutto la sensazione di sentirsi a casa, una volta arrivato nella Grande Mela: «Penso che New York sia in tutto il mondo, la città che meno delude gli stranieri [...]. A New York, soprattutto se ci arrivate via mare, siete catapultati immediatamente nella città che avevate immaginato», una metropoli immersa nella luce, che non conosce ombra, nonostante la presenza invasiva dei grattacieli. Una città senza carattere, obietta la moglie di Simenon, e forse proprio per questo così accogliente. Il Sud lo affascina e lo incuriosisce: Miami, dove le spiagge conservano una bellezza esotica e l’aria condizionata è già una certezza negli anni Quaranta; dove «è tutto pulito, tutto bello, tutto ricco, niente da nessuna parte vi ricorda che degli uomini si spezzano la schiena a zappare la terra, che altri spaccano il carbone nei cunicoli delle miniere, che interi popoli soffrono la fame e il freddo»; dove la vita sociale non esiste (o almeno non come la intende un europeo) e ciò che conta avviene alle feste esclusive, su una barca e rigorosamente davanti a un bicchiere.
Era questo forse il vero potere degli Stati Uniti: la capacità di far dimenticare a chiunque che, dall’altra parte dell’Oceano, esiste un mondo diverso, dilaniato dalla guerra e dai problemi.
Se per Simenon, Miami è la rappresentazione perfetta di questo potere, occorre allora osservare lo stesso luogo in un altro tempo e attraverso gli occhi di un’altra scrittrice, per comprenderne appieno le allora nascenti contraddizioni, che diventeranno chiare nell’America di Reagan. Nel 1987 Joan Didion scrisse tre saggi sulla città della Florida, pubblicati inizialmente sulla “New York Review of Books” e poi raccolti lo stesso anno in un libro: Miami (Il Saggiatore, 2016) è il tentativo (riuscito) di decostruire il mito di questa metropoli.
Attraverso una scrittura rigorosa, Didion affonda nella Miami degli anni Ottanta (e non solo): la Baia dei Porci, la crisi dei missili, gli esuli cubani, la lucha e Reagan. A lungo la città è stata al centro della politica americana e internazionale.
«Le vanità dell’Avana vanno a morire a Miami», scrive all’inizio del primo capitolo: chi arrivava in città fuggiva dalla Cuba di Batista e da qui cercava in tutti i modi di lottare per rovesciare il suo potere.
La lucha degli espatriati era, infatti, più di una visione politica: era un modo di essere, di guardare il mondo e di sentirsi uniti da un sentimento comune. A Miami gli esuli trovarono una terra che sapeva di casa e la possibilità di ottenere armi e alleati per combattere una guerra da lontano. La liberazione di Cuba divenne così un argomento caldo della politica statunitense. Fu Ronald Reagan «il primo Presidente americano a venire a Miami in cerca dell’appoggio dei cubani». Sostenere gli esuli e i loro progetti, per poi abbandonarli al momento opportuno, quando cioè le loro gesta diventavano troppo pericolose, e le loro parole imbarazzanti: fu questo, come racconta Joan Didion, il modus operandi del governo statunitense durante gli anni Ottanta.
Miami passò dall’essere un paradiso fatto di mare e luce, a teatro delle contraddizioni e delle ombre delle visioni americane.
«Come diceva il mio padrone di casa», scrive Simenon, «vi sfido a trovare una sola cosa che manchi (a Miami). Se non, forse, la possibilità di sentirsi ancora uomini. A meno che, con l’aiuto di qualche drink, non vi mettiate a compatire voi stessi o il vostro vicino, o a spaccare la faccia al tizio che vi guarda storto».