Quando l'omosessualità era "un pericolo per la sicurezza nazionale"
La Lavender Scare è tra i fenomeni meno conosciuti della storia americana. Raccontarla significa parlare di violenza, omofobia di stato e lotta per il carattere stesso della nazione
Quando nell’estate 1981 un agente della CIA si presentò davanti alla porta di casa sua, John Green non batté ciglio. Ingegnere aerospaziale, veterano della marina, nazionalista e Repubblicano conservatore, da 13 anni lavorava per TRW, un’azienda con appalti nel settore nella sicurezza nazionale. Con ben 6 security clearance, aveva spesso a che fare con la CIA. Quel giorno però, l’agente era in imbarazzo. Non era venuto a chiedere di lui, ma riguardo un controllo di sicurezza fatto da TRW sul suo coinquilino. «Certo che lo conosco bene», rispose, «stiamo insieme da anni». Al che l’agente gli chiese «mi sta dicendo che avete una relazione omosessuale?». «Sì, lo sanno tutti in ufficio». A non saperlo era proprio la CIA. Qualche giorno dopo Green si vide togliere la clearance e fu assegnato a un lavoro di archivio.
Una storia simile accadde l’anno prima a Jamie Shoemaker, un linguista della NSA con top secret clearence, nel 1980. Prelevato dal suo ufficio da due agenti fu interrogato riguardo il suo gay lifestyle. Fu licenziato poco dopo. Questo perché la posizione del governo non era mai cambiata dagli anni ’50, durante uno dei più lunghi panici morali dell’ultimo secolo, la cosiddetta Lavender Scare. Le persone omosessuali non potevano lavorare in agenzie e dipartimenti federali, soprattutto quando questo comportava accesso a materiale top secret. Il motivo ufficiale era il pericolo che queste persone divenissero vittime di estorsione da parte di agenti stranieri.
Nel caso di Green come di Shoemaker questo si trasformava in un paradossale catch-22. Persone che vivevano apertamente il proprio orientamento sessuale si vedevano togliere la clearance e il lavoro, mentre rimaneva in servizio solo chi riusciva a tenere tutto segreto, e che quindi era più a rischio di essere ricattato.
La Lavender Scare, una storia poco raccontata
La Lavender Scare è uno di quei meno noti eventi del ‘900 che segnano epoche e ne rappresentano l’identità storica. Addirittura non aveva un nome fino a quando lo storico David Johnson non pubblicò un libro sull’argomento, prendendo a prestito il termine con cui il senatore Dirksen negli anni ‘50 chiamava gli omosessuali, lavender lads. Per molto tempo, se proprio era menzionata, questa storia fu considerata un sottoprodotto della più famosa Red Scare lanciata dal senatore McCarthy contro il pericolo della presenza di comunisti nelle agenzie federali. La verità è che le due storie si intrecciano fin dal principio.
L’omofobia di stato naturalmente non è un prodotto della guerra fredda, così come non lo era la paura del comunismo. Negli Stati Uniti soprattutto, la prima anticipa la seconda di decenni. Il disdegno per la presenza di “deviati sessuali” nelle gerarchie statali si sviluppa insieme all’inarrestabile espansione della burocrazia federale dopo la fine della guerra civile. Questo è un periodo caratterizzato da un pervasivo dibattito pubblico sulla definizione stessa di americano e di chi ci rientrasse, in cui i miti dello stato si cementificano, in cui le prassi e tradizioni costituzionali si stratificano. Come altrove, nella definizione di fit for service di sicuro non rientravano le persone gay. Tuttavia il disdegno morale non si trasformò in attiva azione regolatoria fino alla seconda guerra mondiale. Tuttavia le necessità belliche imponevano pragmatismo, le domande rifiutate non superarono le 4000 su 18 milioni, e venivano tutte dall’esercito.
Lo spionaggio, la diplomazia e i dipartimenti federali non si curavano della cosa. L’opinione generale era semplicemente, e a ragione, che questi posti fossero il rifugio di una classe privilegiata di ricchi bianchi laureati presso l’Ivy League. La questione era di classe e razziale, non morale. Nel 1947 tutto ciò cambiò. Truman emise un decreto che stabiliva un programma di lealtà per tutti gli impiegati federali con una clausola morale dentro cui fu dall’inizio inclusa l’omosessualità, senza bisogno di menzionarla.
Così che quando McCarthy, nel febbraio 1950, fece il suo famoso discorso a Wheeling, West Virginia, in cui denunciò la presenza di “almeno 205 comunisti nel dipartimento di Stato”, John Peurifoy, Vice Sottosegretario, poté rispondere che no, non c’erano comunisti nel dipartimento, ma che altri “rischi per la sicurezza nazionale” fossero stati già eliminati, inclusi 91 omosessuali, uomini e donne. La conseguenza di ciò fu che per il pubblico e i media il governo stava affermando che le due scare, quella per i comunisti e quella per l’omosessualità, erano uguali e ugualmente prioritarie. Il risultato furono migliaia di licenziamenti in tronco, interrogazioni parlamentari, la rovina di decine di migliaia di vite e un’ondata di suicidi. Relazioni e minute di inchieste rivelano quanto fosse delirante il panico morale. “Internazionale omosessuale”, “Homintern”, “Department of State Depravity” riempiono le pagine. Delle 25000 lettere di delazione riguardanti dipartimento di Stato e CIA che McCarthy ricevette nel 1950 solo il 25% riguardava la red infiltration, il resto erano denunce di sex deviance.
Il problema omosessuale, minaccia esistenziale per la proiezione imperiale
Il “problema omosessuale”, come venne chiamato, aveva caratteri molto più complessi di quanto sembri. Anche perché mancava di basi reali. Non una prova venne mai fuori che una persona costituisse un pericolo per la sicurezza nazionale a causa del proprio orientamento sessuale. Nessuna delle persone licenziate spiò mai per l’URSS. Per giustificare la scare arrivarono quindi in aiuto tradizioni narrative dei testi complottisti di fine ‘800. La scrittrice Rosie Goldschmidr Waldeck li riassunse nel suo articolo “Internazionale omosessuale” nel 1952. Esisteva per lei una rete di spie omosessuali che tentavano di controllare l’Occidente e minarne la coesione. Avevano carattere orientale, anticapitalista e antiborghese. Questi non erano per forza marxisti, però aiutavano la causa sovietica ed erano sicuramente pronti al tradimento. I richiami all’oriente, quindi all’alterità contrapposta all’Occidente, al perverso e alla cospirazione globale, al marxismo, giocavano su di una paranoia che riguardava allo stesso tempo sia la politica che l’identità sessuale.
L’omosessuale non era solo un pericolo perché ricattabile, ma perché metteva a rischio la proiezione imperiale stessa dell’Occidente nel mondo. Una doppia minaccia esattamente come erano stati considerati gli ebrei tra ‘800 e ‘900. Nemici fuori e dentro allo stesso tempo, vulnerabilità interne delle agenzie federali ma anche minacce attive verso uno stato considerato esso stesso vulnerabile perché sotto attacco. La nuova nazione leader della civiltà occidentale non poteva non preservare il carattere della nazione purgandolo di elementi indesiderati e demascolinizzanti. La sessualità in questo senso andava a essere parte della relazione degli Stati Uniti col mondo. Quell’articolo non a caso fu usato poi dal Dipartimento di Stato tra i motivi per considerare gay e lesbiche come liabilities da eliminare, in mancanza di prove tangibili di tradimento.
«Is this country fit to lead the world? » titolava Reader’s Digest nel 1946. L’ossessione per questa domanda popola il fascicolo, presso i National Archives di Washington, di Samuel Boykins, all’epoca direttore del Bureau of Security and Consular Affairs del Dipartimento di Stato (che include una copia dell’articolo di Waldeck). Il rischio della ricattabilità è marginale qui. L’omosessualità era un pericolo esistenziale per il carattere virile della nazione. «The strong rise of homosexuality accompanied the decline of the Egyptian, Greek and Roman Empire, after their peak» recita un memo del Dipartimento del giugno 1950. La paranoia per il ciclo delle civiltà e di cosa portasse alla loro caduta è evidente. Le nuove sfide di potenza portate avanti da URSS e Cina mettevano alla prova il carattere nazionale.
In questo contesto una civiltà all’apice della propria storia era sempre rappresentata da un uomo stereotipicamente virile, vigoroso e marziale, mentre quella in declino era fatta di effeminatezza e devianza sessuale. L’omosessualità faceva quindi parte dei sintomi di un declino da sfuggire, un simbolo di istinti «primitivi» (non a caso usato allo stesso tempo per riferirsi alle società afro-asiatiche pre-coloniali) incompatibili con la normalità occidentale. Nel 1971 Richard Nixon si sfogò con alcuni membri dello staff della Casa Bianca riguardo la crescente accettazione dell’omosessualità nella società americana. «You know what happened to the Greeks. Homosexuality destroyed them (…) The last six roman emperors were all fags».
Quanto pervasiva questa narrazione fosse lo dimostra la durata dell’applicazione dell’ordine esecutivo n.10540 firmato da Eisnhower nel 1953, che consentì la sospensione del due process e il licenziamento e messa sotto inchiesta di decine di migliaia di persone. Decenni di lotte, portate avanti da attivisti come Frank Kameny, astronomo licenziato dall’esercito nel 1957, portarono a pochi successi legislativi, anche se alcuni riuscirono a far valere le proprie ragioni in tribunale, come lo stesso Shoemaker nel 1987. Si dovette aspettare il ’98 perché Clinton cambiasse almeno il linguaggio dell’ordine di Eisenhower, e il 2016 per l’abolizione completa firmata da Barack Obama. Passato un anno, l’amministrazione Trump, sfruttando il nuovo panico morale rappresentato dalla comunità trans, ha riproposto lo stesso strumentario degli anni ’50, negando alle persone trans l’accesso al servizio militare. Jennifer Levi, Direttrice del Transgender Rights Project, non ha dubbi sulla corrispondenza tra il nuovo moral panic del GOP e la paranoia del dopoguerra “The goal in both of those was to demonize a community» ha detto a Time. «It was to send a message that it’s not OK to be who you are. It was effective then, it is also now».