Quando la musica classica diventa spazio di protesta e di libertà
Il Kennedy Center e il rifiuto di András Schiff di esibirsi negli Stati Uniti: la musica colta d’oltreoceano, da strumento di legittimazione politica a simbolo di protesta e libertà
Da András Schiff – il pianista e direttore d’orchestra di origine ungherese che ha cancellato i suoi concerti previsti negli Stati Uniti per tutto il 2025 – alla National Symphony Orchestra, boicottata da molti dopo che Trump ha assunto la carica di presidente del Consiglio di Amministrazione del Kennedy Center (licenziando varie persone dello staff), fino alla lettera aperta e alla relativa petizione sottoscritta da oltre 600 musicisti per ribadire l’importanza della libertà di espressione e di parola in un Paese che sembra dimenticarsene.
La musica colta, da portavoce dei valori americani, sta diventando così il terreno di protesta contro le politiche di Donald Trump e della sua amministrazione.

Proprio il Kennedy Center ha aperto la stagione 2025/2026 con un concerto che è una dichiarazione profondamente americana di cosa rappresenti la musica classica per il nuovo continente: a partire dall’apertura di un classico nazionale come la Fanfare for the Common Man (1942) del compositore statunitense Aaron Copland, ispirata a un discorso tenuto dall’allora vicepresidente Henry A. Wallace che celebrava la forza dell’uomo comune, scritta proprio in occasione dell’entrata in guerra degli Stati Uniti. Altro caposaldo “americano” è la Sinfonia n. 9 di Dvořák, Dal nuovo mondo, influenzata dalla musica dei nativi americani e dai primi passi del blues, ma anche dai grandi spazi e da tutto ciò che il compositore ceco vide e ammirò degli Stati Uniti durante il suo lungo soggiorno.
Un altro sguardo sul Paese è infine quello di Warmth from Other Suns di Carlos Simon, ispirato al libro di Isabel Wilkerson sulle migrazioni di massa degli afroamericani dal Sud al Midwest degli Stati Uniti. E poi, dall’Europa il monumentale Concerto n. 1 per piano di Čajkovskij, famosissimo e da sempre amato dai programmi musicali americani.
Le polemiche legate al Kennedy Center non devono stupire, perché il rapporto tra musica colta (o semicolta) e Stati Uniti è anche profondamente legato al potere politico: da sempre, infatti, i presidenti hanno visto nella musica classica la possibilità di acquisire legittimazione culturale e sociale, sia per l’intero Paese, sia per loro stessi. In tempo di campagne elettorali, non soltanto sono stati usati (e abusati) pezzi rock e pop come Born in the U.S.A di Springsteen (con relative controversie), ma anche brani di grandi compositori: basti pensare al celebre spot elettorale I Like Ike per la campagna di Eisenhower nel 1952, la cui musica fu scritta da Irving Berlin. O a George W. Bush, che nel 2004 si appropriò del potere evocativo di Strauss e del suo valzer più celebre Sul bel Danubio blu, per ricordare ai potenziali elettori che il rivale John Kerry non era affidabile e le sue idee ondeggiavano come le acque del fiume e le coste dell’oceano in cui Kerry faceva windsurf.
La musica colta, usata come strumento di legittimazione politica, si appropria del potere simbolico e sociale della musica di protesta e ci ricorda anche che il vero compito dell’arte è insegnarci la libertà, nel senso più profondo del termine.
Fu proprio uno dei grandi padri della musica classica statunitense a spiegare al mondo la libertà e quanto le dissonanze non siano errori, ma modi diversi di osservare e capire le cose. La storia di Charles Ives è terribilmente americana: nato a Danbury, in Connecticut, nel 1874, iniziò a suonare giovanissimo, spinto dal padre, capobanda dell’esercito americano nella guerra civile. Dopo la laurea a Yale divenne un agente assicurativo e poi proprietario di un’intera agenzia, ma la musica era la sua vera pungente ossessione. Ciò che rende straordinarie le composizioni di Ives (e in generale la sua vita) è la dimostrazione che non esiste un modo giusto di fare le cose: esistono, invece, tante maniere di guardare il mondo, almeno quanti sono gli esseri umani. E non importa se gli altri non comprendono subito il nostro sguardo, perché prima o poi lo faranno, così come è accaduto a lui, realmente apprezzato in tarda età e premiato con un Pulitzer solo nel 1954. La libertà del suono e della scrittura gli permisero di fare qualcosa di rivoluzionario (e abbastanza impensabile fino a quel momento): allontanarsi dal canone europeo per creare un’autentica e nuova musica colta americana. Su tutte le sue opere, troneggia The Unaswered Question: il brano è una continua, assillante domanda sul senso della vita e delle cose, a cui però,Ives non può e non vuole fornire una risposta. L’essenza del mondo è puro caos, senza una logica e neppure una direzione: ciò che possiamo fare è solo vivere ed essere liberi di farlo.