Quando Kennedy sposò la Lost Cause
Il libro Profile in Courage, che rese famoso l'allora Senatore, è una collezione di storie che servirono a vincere il Sud a scapito della verità storica sulla Ricostruzione
Scrivere un libro è ormai rito di passaggio per chiunque abbia alte aspirazioni politiche negli Stati Uniti. «Ogni membro del Congresso crede che la propria storia di vita sia da bestseller», disse Steve Israel al Washington Post anni fa. Tediosi, prolissi e prevedibili, la maggior parte di questi tomi vendono meno copie dei pochi voti che i candidati riescono a racimolare. Chi infatti ricorda Immigration Wars: Forging and American Solution di Jeb Bush? Oppure All Things Possibile: Setbacks and Success in Politics and Life, di Andrew Cuomo? I libri che storicamente sono stati un successo di vendite si contano sulle dita. Da una parte ci sono testi che parlano dell’anima dei loro autori, sono onesti e profondi, dalle Personal Memoirs di Ulysses S. Grant, a A Fighting Chance di Elizabeth Warren, fino al Sacro Graal dei libri politici, Dreams from my father di Barack Obama. Dall’altra ci sono i libri storici, che servono a incardinare l’autore nella storia del Paese, come Crusade in Europe di Dwight Eisenhower o Six Crises di Richard Nixon. Pochissimi fino ad ora però sono riusciti a battere Profiles in Courage di John F. Kennedy, con le sue trenta ristampe e un premio Pulitzer vinto dal all’epoca Senatore del Massachusetts. È uno di quei libri che tutti conoscono, ma che pochi davvero leggono, che cementò il mito di JFK in vita e anche dopo l’assassinio, e che ha fatto non pochi danni alla memoria storica della guerra civile e della ricostruzione.
Profiles fu scritto da un Kennedy trentottenne, negli stadi iniziali della sua campagna per il 1960. In realtà la questione di chi materialmente scrisse il testo è ancora aperta. Sicuramente cruciale fu l’aiuto di George Sorensen, il suo speechwriter, come quello dello storico Jules Davis. Il libro si compone di otto profili di Senatori degli Stati Uniti, da considerarsi esempi di straordinario coraggio, da John Quincy Adams a Robert Taft. Il titolo del libro andava ad enfatizzare come il nono nome non potesse che essere quello di Kennedy, famoso per le proprie azioni eroiche durante la Seconda Guerra Mondiale nel pacifico. La selezione era molto ben calibrata dal punto di vista geografico. Due nomi del Nord Est, due del Sud, quattro del Midwest. Tre erano Repubblicani, con cause politiche tra le più variegate. Tutti accomunati da quello che Kennedy riteneva essere tra le più alte forme di coraggio, quella di prendere decisioni impopolari e contro il consenso del proprio stesso partito, in servizio della causa più alta dell’interesse nazionale. Riformisti, progressisti e idealisti non potevano rientrare in questa definizione. Nessuno, infatti, brilla per particolari meriti nel campo delle riforme sociali. Taft fu incluso per la sua coraggiosa opinione contraria al processo di Norimberga perché i crimini commessi dai nazisti non erano reato al tempo. Webster perché abbandonò i suoi principi abolizionisti in supporto del Compromesso del 1850, che includeva il famigerato Fugitive Slave Act. «La preservazione dell’Unione era più importante che la sua opposizione alla schiavitù». Oltre a questo, ben tre dei profili sono di schiavisti (Lamar, Houston e Benton), con una menzione speciale a John Calhoun, a significare quanto il libro fosse un modo da parte di un poco conosciuto Senatore del Massachusetts di farsi conoscere e apprezzare nel Sud di Jim Crow e dei monumenti confederati.
Proprio uno di questi profili permette di capire meglio come il libro servì a cementare dei miti riguardanti quel periodo straordinario e tormentato che fu il decennio della Ricostruzione dopo la Guerra Civile. Il senatore Lucius Lamar è forse il più prominente politico del Mississippi di fine Ottocento. Secessionista, schiavista e difensore della causa del possesso di essere umani, fu scelto da Kennedy per l’elogio funebre che fece al Senato nel 1874 in onore di Charles Sumner, il Senatore Repubblicano radicale del Massachusetts, ardente abolizionista. JFK era colpito da una certa solenne magnificenza della scelta di Lamar, impopolare tra i suoi elettori. «Arrivò a capire che la felicità futura della nazione poteva solo venire dalla conciliazione e cooperazione tra cittadini di tutti gli stati del Nord e del Sud». Il suo rivale in questo nobile fine era invece Adelbert Ames, Governatore provvisorio del Mississippi dopo la guerra, un carpetbagger (così erano chiamati i nordisti venuti nel Sud per un percepito fine di arricchimento a scapito della popolazione bianca), che rovinò lo stato. «Nessuno stato soffrì grazie al governo dei carpetbagger come il Mississippi. La corruzione era rampante, le tasse aumentarono di quattordici volte, vaste aree del paese erano in rovina. (…) Il governo di Ames, scelto come governatore da una maggioranza composta da ex-schiavi e radicali repubblicani, era sostenuta solo dalle baionette dell’esercito federale». La verità, come gli storici hanno più volte chiarito, era molto diversa. Il Mississippi durante la Ricostruzione fu uno degli stati dove la prospettiva di emancipazione per gli Afro-Americani era più promettente. Lo stato elesse i primi Senatori neri della storia del Paese, Hiram Revels e Blanche Bruce, il tutto mentre Ames cercava di contenere la tassazione e combattere le varie milizie paramilitari incitate da politici come Lamar. Dopo le elezioni di midterm del 1874, quelle che lo storico Eric Foner ha chiamato «il gran rifiuto della Ricostruzione», i Democratici misero insieme il cosiddetto Mississippi Plan. Come Lamar stesso sottolineò, bisognava a tutti i costi vincere le elezioni legislative del 1875 (ottenute con la minaccia di riot e linciaggi) e poi le presidenziali nel 1876, per assicurare “la supremazia dell’invincibile razza sassone”. Il giorno delle elezioni bande armate ostruirono i seggi, ne distrussero molti, minacciarono elettori neri, impedirono ai Repubblicani di votare. Il colpo di mano funzionò. Con entrambe le camere in mano Democratica, minacciato da impeachment, Ames si dimise e fuggì verso Nord. L’anno dopo, nel mezzo dell’impasse che seguì le elezioni presidenziali, Lamar sostenne il compromesso che permise al Repubblicano Hayes di diventare Presidente, in cambio della fine della Ricostruzione e del ritorno del Sud all’autogoverno.
Era la vittoria degli ex schiavisti e di chi voleva impedire che i neri avessero diritti di cittadinanza. Tuttavia, non poteva essere presentata così. Lamar e altri rispettabili Democratici del Sud cominciarono a insistere che a motivarli non era l’opposizione ai diritti, ma alla corruzione, allo strapotere federale e a una attitudine estremamente punitiva nei confronti degli stati ex Confederati. L’elogio a Sumner era parte proprio di questa strategia. In nome di un ritrovato compromesso di coesistenza, molti moderati del nord, inclusi abolizionisti, cominciarono a credere a questa versione della storia. La Ricostruzione divenne «l’incubo nero che il Sud non dimenticherà mai», come ricorda Kennedy. Che fosse stata un disastro divenne un assunto dato da quasi tutti per scontato, qualcosa da cui la nazione aveva dovuto tenersi lontana in nome della riconciliazione. Che questo si basasse su fatti errati, e che abbia voluto dire annullare gli effetti di quattordicesimo e quindicesimo emendamento e aprire all’era di Jim Crow era irrilevante. La ricerca storica del Novecento contribuì al cementarsi del mito di una nazione riconciliata dopo un periodo di folle sperimentazione che aveva portato solo rovina e corruzione.
Profiles in Courage fu scritto proprio basandosi sugli scritti di influenti studiosi della cosiddetta Dunning School, i discepoli del Professore della Columbia William A Dunning. Questi misero sotto una luce favorevole gli ex Confederati e i proprietari di piantagione. Allo stesso tempo, i governi Repubblicani nel Sud occupato, che contavano sul voto degli ex schiavi, non potevano essere che corrotti, stravaganti e oppressivi. «La radice dei problemi del sud non era la schiavitù, ma la coesistenza impossibile di due razze così distinte in una sola società», scriveva Dunning su The Atlantic nel 1901. Di qui l’approvazione di Jim Crow, seppur non nelle sue applicazioni più brutali. «Era un modo per giustificare e spiegare l’oppressione dei neri sulla base che l’estensione nei loro confronti dei diritti di cittadinanza aveva portato ai cosiddetti orrori della Ricostruzione», come scrive Foner. L’idea di fondo era che gli Afro-Americani non erano capaci di prendere parte alla vita democratica del Paese, e il decennio post-Guerra Civile lo aveva dimostrato, con l’aiuto di carpetbeggar Repubblicani come Ames.
Fu questa idea a dare forma all’ideologia storica di Kennedy, in linea con una lunga tradizione neo-Confederata. Storici neri, da Du Bois a Lynch a Washington Williams furono ignorati dall’accademia e mai citati nel libro. Quella della Ricostruzione come incubo di radicalismo sconfitto da coraggiosa riconciliazione fu una favola che dominò e influenzò la politica americana per più di un secolo, mentre si innalzavano statue a politici e generali ex Confederati e la segregazione imprimeva conseguenze visibili ancora oggi nel tessuto sociale americano. Fino al punto che si cominciò a cercare prove che la vera causa della Guerra Civile fosse stata l’economia o una disputa sul potere federale, invece che la schiavitù. Solo negli ultimi decenni si è cercato di correggere questa falsa narrazione, non sempre con successo
Nel 2010 una statua di Lamar fu eretta davanti alla sua casa a Oxford Mississippi. Il Lamar House Museum non lo commemora come un suprematista e architetto del Mississippi Plan, ma come “secessionista del sud e statista americano”. Profiles in Courage è citato ovunque nella mostra permanente. Una lezione su come alcune narrazioni storiche, nate da tendenziosi progetti politici, siano dure a morire e portino con se conseguenze devastanti per molto tempo.