Le proteste nei campus sono solo parte del grande caos di cui è vittima l'America
Non è una questione giovanile. Le proteste pro-Gaza (e il processo a Trump e due guerre di portata mondiale) investono la primavera americana come una nuvola di caos
Il mondo assiste alle proteste nei campus americani contro la guerra a Gaza con apprensione e allarme o con esultanza e orgoglio. Ovunque le scene dagli accampamenti e gli arresti dei manifestanti sono le principali notizie. Nei reportage del New York Times con foto, video e storie dai campus dell’Università della California, Irvine, o alla Kent State University in Ohio, o l’Art Institute of Chicago, così come nel racconto del corrispondente de La Stampa da Washington, all’Università di Portland in Oregon, è come se la stampa stesse raccontando per capire, essa in primis, mettendo i giovani studenti sotto il microscopio.
Capire perché lo fanno, con quali ideali, con che grado di investimento. Dando un’occhiata alle proprie spalle – impossibile non fare il paragone con le proteste dei campus degli anni Sessanta e Settanta quando, al posto dei palestinesi, i destinatari della solidarietà degli studenti erano gli afroamericani e i vietnamiti. Con i piedi ben piantati sul presente, su cosa tuttavia significhi manifestare nel 2024, nell’era e negli spazi offerti da internet, dove tentativi di doxxing e minacce di morte online hanno costretto molti manifestanti a nascondere la propria identità.
La preoccupazione maggiore di questi racconti sembra essere quella di stabilire come gli studenti pensano e parlano, e in alcuni casi come fare per fermarli e rieducarli, nello stesso modo in cui uno scienziato studierebbe una specie aliena o, meglio, come farebbe un genitore nel disperato tentativo di decifrare il comportamento di un ragazzo della Gen Z.
Il conflitto generazionale riecheggia nelle parole di Ari Berman nel suo commento su Usa Today a proposito del bisogno di un massiccio intervento di rieducazione della gioventù americana quanto nell’articolo di Zadie Smith del New Yorker sull’uso manipolatorio delle parole all’interno del contesto israelo-palestinese.
Nel primo caso Berman azzarda un paragone tra i campus occupati dagli studenti americani e il campo di concentramento nazista di Auschwitz. E, dice, se durante la seconda guerra mondiale il peccato commesso è stato l’indifferenza, oggi è l’indulgenza. «I leader universitari hanno creato una cultura dell’indulgenza», si legge su Usa Today. «Permettono ai loro studenti di infrangere le regole delle loro istituzioni senza conseguenze. Ciò che le università devono fare è riaffermare il loro ruolo di educatori.» Rieducare, dunque. Raddrizzare gli studenti “estremisti” – anche se il 97% delle proteste sono state pacifiche – che sarebbero forse stati “plagiati” da attivisti esterni che li avrebbero addestrati con corsi di pianificazione delle proteste, consigli via social e indicazioni sugli slogan da utilizzare, osa il Wall Street Journal, a sua volta rilanciato da Repubblica.
Dalla parte opposta, Smith sul New Yorker commenta che «chiunque si ritrovi ad alzare gli occhi al cielo davanti a un giovane disposto a mettere a repentaglio il proprio futuro per un principio etico dovrebbe chiedersi quali siano i limiti del proprio impegno». La scrittrice aggiunge che, nella loro protesta, gli studenti sono «una forza più razionale dei presunti adulti», poiché l’etica alla base delle proteste nei campus universitari di tutta l’America è quella secondo cui «se si vuole puntare la macchina del potere oppressivo contro i deboli, allora c’è il dovere di fermarne gli ingranaggi con ogni mezzo necessario». In questo senso «mandare la polizia ad arrestare i giovani che insistono pacificamente per un cessate il fuoco rappresenta un danno morale per tutti e farlo con la violenza è uno scandalo.»
Tuttavia, i due articoli sono d’accordo su almeno due importanti punti della guerra a Gaza. Lo svuotamento semantico delle parole e il tifo.
Se per Berman gli studenti, in quanto “estremisti”, «oscurano il linguaggio, cercano di confondere, non di chiarire» e quello che dovrebbero fare le università è «recuperare complessità e sfumature», per Smith il conflitto israelo-palestinese è «forse l’esempio più acuto al mondo dell’uso delle parole per giustificare omicidi sanguinosi, per appiattire e cancellare storie incredibilmente labirintiche e per offrire il piacere atavico della semplicità violenta.» Conseguenza di questa retorica è che parole dure vengono usate con leggerezza al solo scopo di dimostrare la propria appartenenza a una comunità, quella pro-Israele o quella pro-palestinese, che non solo svuota di significato il linguaggio, ma per di più rallenta e vanifica le azioni mentre prosegue la conta dei morti.
La riflessione di Smith non ha a che fare con l’incapacità dei giovani studenti di prendere sul serio i motivi per cui stanno manifestando, anzi, ma con un problema della politica americana. Una «politica senza fondamenta, senza principi, che ha come scopo primario la propria perpetuazione. Una Realpolitik troppo pragmatica per affrontare banalità etiche come non uccidere».
La stampa americana ha particolare interesse a spingere l’America a fare autoanalisi. Mentre il New York Times per guardarsi meglio dentro ha fatto una selezione dei punti di vista sulle proteste viste dall’esterno, il Washington Post ha riconosciuto senza mezzi termini che una “nuvola di caos” si è addensata sulle teste degli americani. Mentre gli studenti sono messi sotto la lente di ingrandimento con un certo distacco, come le proteste fossero una questione giovanile che non ha a che vedere con il mondo degli adulti, gli Stati Uniti non solo stanno vivendo il «più grande movimento di protesta universitaria del ventunesimo secolo», ma anche «il primo processo penale contro un ex Presidente, alcune delle leggi sull’aborto più restrittive della nazione e due guerre di portata mondiale il cui orribile bilancio quotidiano delle vittime è così spesso oscurato dalle crisi interne.»
È l’amministrazione Biden che dovrebbe finire sotto il microscopio.