Proposition 50: la vendetta di Newsom fa tremare la Casa Bianca
La California risponde al Texas consegnando cinque nuovi distretti ai democratici, proiettando Newsom nella corsa alla presidenza
Come non accadeva da tempo, una delle corse più osservate di quest’anno è stata un referendum; e non è solo perché siamo in un off-year, in cui le elezioni sono poche. Gli elettori californiani si sono espressi sulla Proposition 50, un quesito insolito che ha rappresentato una grossa scommessa da parte del governatore Gavin Newsom. Il premio è arrivato. Con un ampio margine – in alcune contee quasi bulgaro – i californiani hanno approvato la misura che emenda temporaneamente la Costituzione statale per ratificare la nuova mappa dei distretti elettorali disegnata dal parlamento di Sacramento, che assegna ai democratici cinque seggi in più alla Camera dei Rappresentanti.
Un confronto con i risultati delle scorse presidenziali rivela la magnitudine di questa vittoria. La Proposition 50 ha raccolto percentuali di consenso maggiori di Kamala Harris, in certe occasioni di molto: nella contea di Los Angeles, il sì ha vinto con il 74 per cento, mentre la candidata presidente aveva raccolto quasi il 65 per cento; nella contea di Riverside aveva vinto Trump con il 49,3 per cento, mentre il quesito referendario ha ricevuto l’approvazione del 56 per cento degli elettori. Anche nella Central Valley, bacino di voti repubblicani, la Proposition 50 è riuscita a guadagnarsi l’approvazione di una maggioranza dei voti in alcune contee – San Joaquin, Merced e Fresno – dove Trump aveva vinto l’anno scorso.
La misura è stata il cavallo di battaglia di Gavin Newsom, pensata come risposta diretta alle manovre di gerrymandering (la manipolazione dei confini dei distretti elettorali per avvantaggiare un partito) messe in atto dai repubblicani in diversi Stati, soprattutto in Texas. Lì, la legislatura, saldamente controllata dal GOP, aveva risposto a una richiesta esplicita di Donald Trump di modificare le mappe elettorali in modo da garantire al partito cinque nuovi seggi repubblicani “sicuri” in vista delle elezioni di medio termine del prossimo anno.
Il gerrymandering, è bene chiarirlo, non è certo una novità: entrambi i partiti lo praticano da sempre, tanto da essere ormai parte fondante del gioco politico. Ciò che ha fatto scalpore, questa volta, è stato il coinvolgimento diretto del Presidente in una decisione di competenza statale, sebbene in forma non ufficiale, e il fatto che la revisione delle mappe sia avvenuta a metà del decennio, fuori dal calendario abituale. Il ridisegno dei distretti avviene infatti normalmente nel primo anno di ogni decennio, subito dopo la pubblicazione dei risultati del censimento nazionale, che stabilisce non solo quanti seggi spettino a ciascuno Stato, ma anche la popolazione di ciascun distretto: circa 760.000 persone secondo il censimento del 2020.
Il Texas è stato il primo, e finora il più controverso, tra gli Stati a guida repubblicana ad accogliere l’appello di Trump. I deputati democratici locali, incapaci di bloccare la misura, hanno scelto la via spettacolare dell’esilio politico: hanno lasciato il Texas per rifugiarsi in Illinois, così da impedire il raggiungimento del quorum necessario a votare. Sono seguite minacce di arresto e tentativi di rimuoverli dai seggi, ma alla fine i democratici sono tornati, consentendo al parlamento di Austin di esaudire i desideri del Presidente.
Newsom ha fiutato un’occasione politica. Ha lanciato una campagna mediatica a tutto campo, incentrata sulla difesa della democrazia, diventando presenza fissa nei late night show e nei podcast più popolari. L’obiettivo: accreditarsi come il leader che il Partito Democratico sembra non riuscire a trovare nell’era Trump II. Con una retorica combattiva, ha invitato cittadini e politici a reagire contro gli abusi e a dare l’esempio: cancellare i guadagni repubblicani in Texas eliminando altrettanti seggi rossi in California. Una mossa audace e rischiosa.
Da decenni, infatti, molti Stati democratici hanno cercato di prendere le distanze dal gerrymandering, affidando il redistricting a commissioni indipendenti. Dal 2010, la California si affida alla California Citizens Redistricting Commission, creata con un referendum approvato dal 61,5 per cento degli elettori. Negli Stati repubblicani, invece, il controllo del processo è rimasto in mano alla politica. Secondo Newsom, questo aveva creato una situazione di “disarmo unilaterale” a cui, vista l’eccezionalità dei tempi, era necessario porre fine. Ma non era affatto scontato che gli elettori accettassero una misura che andava contro la volontà da loro stessi espressa quindici anni prima.
I repubblicani, guidati dall’ex Speaker Kevin McCarthy, erano convinti di poter sfruttare l’antipatia diffusa verso il gerrymandering e di costruire una coalizione vincente, con il sostegno di organizzazioni come la League of Women Voters e California Common Cause, protagoniste della campagna del 2010. Con 100 milioni di dollari di finanziamenti promessi, sembrava una vittoria facile. Ma la coalizione si è presto dissolta: molte associazioni si sono rifiutate di collaborare con un Partito Repubblicano profondamente diverso da quello di allora. Persino l’ex governatore Arnold Schwarzenegger, simbolo di quella stagione, ha rifiutato di partecipare ufficialmente alla campagna.
Inizialmente, anche tra i democratici prevaleva lo scetticismo: il rischio di una sconfitta clamorosa che avrebbe rafforzato Trump era concreto. Il primo sondaggio, tre mesi fa, dava solo il 38 per cento di consensi alla restituzione del potere di disegnare i distretti al parlamento statale. La clausola di temporaneità, che prevede il ritorno alle normali funzioni della commissione nel 2030, è stata probabilmente decisiva per rassicurare gli elettori più scettici, presentando la misura come un intervento emergenziale.
Parallelamente, la campagna comunicativa di Newsom ha consolidato il fronte democratico, rafforzando la figura del governatore sullo scenario nazionale come volto della resistenza all’amministrazione Trump. Non va dimenticato che la California era già stata il primo teatro dello scontro con Washington, quando si oppose alla mobilitazione delle truppe federali a Los Angeles. Il referendum si è così trasformato in un atto di sfida verso un governo che non ha mai nascosto la volontà di punire gli Stati democratici, e ha lanciato Newsom tra i principali contendenti per la candidatura presidenziale del 2028.
Il trionfo della Proposition 50 ha spinto altri Stati a guida democratica, finora cauti, a esplorare la possibilità di replicare quanto accaduto in California. Per ora, solo la Virginia, dove i democratici escono da questa tornata elettorale forti di una maggioranza di quasi due terzi nell’assemblea statale, sta valutando seriamente la misura. Ma se altri Stati democratici decidessero di imitare la California, è possibile che il vantaggio costruito dai repubblicani in Texas, Missouri, North Carolina e in Ohio (dove la procedura è ancora in corso) non solo evapori ma addirittura si rovesci. Proprio perché i repubblicani hanno utilizzato in modo sproporzionato il gerrymandering, le mappe sono già estremamente sbilanciate a loro favore. Grazie all’azione delle commissioni indipendenti, gli Stati blu, al contrario, tendono ad avere mappe più eque, dove i democratici potrebbero guadagnare parecchi seggi se decidessero di sfruttare l’occasione. In questo senso, la mossa dell’amministrazione non solo rischia di rivoltarlesi contro, ma anche di aprire una nuova stagione di ulteriore conflitto politico, all’insegna una volta ancora della polarizzazione e, soprattutto, di una spirale senza fine. Combattere il gerrymandering con altro gerrymandering, per quanto esplicitamente approvato dalla popolazione, lo rende un fenomeno ancora più radicato di quanto già sia e cancella decenni di riforme.



