Perché in un anno Semafor è cresciuto e The Messenger è fallito
Semafor e The Messenger hanno tentato di imporsi sul mercato: uno è cresciuto, l’altro è fallito. Cerchiamo di spiegare perché con Luca Sofri, direttore del Post.
Al lancio di Semafor, il 18 ottobre 2022, i fondatori Justin e Ben Smith, rispettivamente ex-CEO di Bloomberg ed ex-Direttore di Buzzfeed, hanno dichiarato, quasi provocatoriamente, che si sarebbero rivolti a un pubblico d’elite, «circa duecento milioni di lettori ad alta scolarizzazione e che parlano inglese correntemente». A maggio 2023 è stato lanciato The Messenger; il suo fondatore, l’imprenditore Jimmy Finkelstein, con un passato in The Hill, media company specializzata in politica americana, ha parlato di «ridare fiducia al mondo del giornalismo». Oggi il primo si è imposto come uno dei più interessanti modelli di giornalismo digitale in attività, avendo raggiunto il pubblico che si proponeva fin dall’inizio di raggiungere, mentre il secondo è fallito dopo appena sette mesi dal lancio.
Entrambi i progetti hanno avuto a disposizione un buon capitale iniziale, ed entrambi hanno avuto problemi lungo la via: Semafor, infatti, ha dovuto dopo poco rinunciare ai dieci milioni di partenza che erano stati dati dall’imprenditore nel mondo delle criptovalute Sam Bankman-Fried, arrestato poco dopo la nascita del progetto, mentre The Messenger in sette mesi ha bruciato 50 milioni di capitale, costringendolo a chiudere i battenti.
«Se vogliamo dare una risposta romantica sul perché sia andata così» – ci ha detto Luca Sofri, Direttore del Post e autore di Charlie, newsletter tematica sul mondo dei giornali – «si può affermare che Semafor è stato concepito da una delle persone più esperte e competenti nel mondo del giornalismo digitale, che quindi aveva sin da subito un’idea chiara di come fare a portare avanti il progetto. D’altro canto, il promotore di Messenger assomigliava molto al classico imprenditore italiano che si compra un giornale perché gli piace, senza avere del tutto presente il contesto editoriale e il pubblico cui vuole fare riferimento». Messenger, infatti, ha iniziato in modo molto aggressivo: con i soldi iniziali ha assunto sin da subito 175 giornalisti, con contratti alti rispetto alla media del mercato, tra cui quello del Direttore editoriale che si aggirava intorno ai 900.000 dollari. Semafor, invece, è partito con 30 giornalisti, e li ha poi aumentati pian piano fino ad arrivare ai 75 assunti adesso.
«La cosa interessante, e per certi versi anomala, del modello di business di entrambi questi prodotti è che si discosta da ciò che prevale oggi, cioè il pagamento da parte dei lettori» – prosegue Sofri – «ed entrambi i prodotti, infatti, sono completamente gratuiti. Messenger è stato, in modo molto anacronistico, legato all’idea generalista e ormai passata di una informazione quantitativa: più articoli, più clic, più ricavi dovuti alle pubblicità. È anche questo un modello ormai in declino». Molte testate, discutendo su come fosse stato possibile un crollo così rapido di un progetto nato con così tanti soldi, hanno messo in luce proprio questa idea desueta per cui i soldi si farebbero in base ai clic sul sito. Eli Walsh, che ha lavorato a Messenger, ha detto a Variety di aver scritto 630 storie nel periodo in cui è stato assunto, di cui molte erano semplicemente copia e incolla rivisto da altri siti, all’unico scopo di generare traffico. Non si puntava per nulla alla qualità dell’informazione, non si volevano assumere i migliori reporter per dare loro tempo di costruire un pezzo ragionato, ma ogni giorno dovevano uscire decine di contenuti, spesso dimenticabili, allo scopo di generare entrate con le pubblicità; più clic ci sono, infatti, più per una pubblicità quello spazio è appetibile e quindi più soldi è disposta a pagare l’azienda per essere posizionata lì. Il pubblico a cui poi si rivolgevano era del tutto generalista, quindi più difficile da fidelizzare rispetto a una nicchia ben specifica.
Al contrario, fin dalla provocazione sull’essere “il giornale delle elite”, Semafor ha sempre avuto presente a chi si rivolgeva e come raggiungerlo: un pubblico di alto livello a cui vengono proposte quotidianamente alcune newsletter molto settoriali. A differenza di un prodotto che voleva essere letto da chiunque, ricercando un pubblico enorme e generalista, Semafor voleva essere letto da nicchie raggiunte principalmente tramite newsletter specifiche e verticali. «La credibilità del progetto di Semafor, fin dall’inizio, fa sì che Justin e Ben Smith abbiano potuto raccogliere molti soldi: questa credibilità ha generato sponsorizzazioni importanti» – continua Sofri – «e le sponsorizzazioni sono proprio il modello di business principale di questo prodotto: non raggiungere moltissime persone che non pagano, ma un pubblico ristretto di valore maggiore per inserzionisti e sponsor, disposti quindi a pagare di più».
Semafor ha avuto per questo alcuni problemi: quando era nato aveva affidato la sua newsletter sul cambiamento climatico a Bill Spindle, un giornalista che per anni si è occupato del tema. Questo, però, dopo pochi mesi ha mollato l’incarico e ha scritto un articolo molto critico sulla Columbia Journalism Review per via del fatto che la sua newsletter era sponsorizzata da Chevron, multinazionale del settore del petrolio, e lo riteneva un chiaro esempio di greenwashing, l’idea secondo cui alcune aziende farebbero investimenti al solo scopo di essere ritenute dal pubblico attente al problema dell’impatto ambientale, per poi sostanzialmente mantenere lo status quo. Oggi la newsletter Net Zero di Semafor è sponsorizzata da Genesis, l’azienda di automotive specializzata in berline di lusso controllata da Hyundai.
Le sponsorizzazioni, come detto, sono il bacino principale di utili per Semafor, e questo proprio per via del fatto che le aziende sanno di essere molto appetibili per la fascia di lettori di quelle newsletter. Nonostante non possediamo dati precisi Semafor sembra andare molto bene, assume nuovi giornalisti e ha circa 650.000 iscritti complessivi alle sue newsletter gratuite.
Semafor e The Messenger sono due esempi di nuovi modelli giornalistici con la velleità di entrare nel mondo dell’informazione mainstream, solo uno è però sopravvissuto: questo indica che non è del tutto vero dire che non c’è spazio per nuovi progetti informativi, ma serve una comprensione totale del mercato per poter provare a sopravvivere ed emergere nel mucchio. Justin e Ben Smith, al netto di come andranno le cose nei prossimi anni, hanno dimostrato di avere ben chiaro il funzionamento del mondo editoriale americano odierno.