Perché il sogno americano del Grande Gatsby continua ad abbagliarci. E a illuderci.
Martedì 18 novembre un incontro al Centro Studi Americani, nell’ambito del Festival della Cultura Americana, per raccontare il romanzo di Fitzgerald e il suo potere
Sono passati cento anni da quando Il grande Gatsby, scritto dall’ allora astro nascente Francis Scott Fitzgerald, venne pubblicato: il 10 aprile del 1925 uscì l’opera che cambiò per sempre non solo la letteratura, ma il nostro modo di guardare l’America e il suo sogno.
È intorno a questo tema che martedì 18 novembre il Centro Studi Americani ha dato vita all’incontro Gatsby compie 100 anni all’interno del Festival della Cultura Americana, rassegna che si concluderà il 21 novembre e che quest’anno è interamente dedicata all’American Dream.
Il sogno americano, così come raccontato da Fitzgerald, conserva intatti il suo fascino e la sua efficacia. Non esiste, forse, un mito fondativo più forte e tenace dell’American Dream.
Eppure, come ha spiegato Ugo Rubeo (professore ordinario di Lingua e letterature angloamericane presso La Sapienza) si tratta di un sogno che lo stesso Fitzgerald trasforma in incubo, in fallimento: “Non esiste, infatti, un’opera sul sogno americano che abbia un lieto fine”.
Il grande Gatsby stesso racconta la sconfitta di un’idea che sembrava perfetta: il piano, così meticolosamente racchiuso nelle pagine del diario del protagonista, è la prova della distanza tra ciò che vogliamo e la realtà che sfugge al nostro controllo. Ma è soprattutto la dimostrazione del distacco tra il mito fondativo e la vita. L’elenco stilato da Gatsby per seguire «la sua meta, il suo sogno», per raggiungere la ricchezza e conquistare la donna che ama, si scontra, come ha detto Rubeo, con «l’idea della perfettibilità». Siamo di fronte, come racconta sempre Rubeo, a «un doppio dramma» che intreccia «il legame tra il privato di Gatsby e la storia americana».
Quello stesso rigore che accompagnava Gatsby nel voler disperatamente appartenere a un mondo che lo rifiutava era il riflesso della scrittura di Fitzgerald. In un saggio di qualche anno fa, La morte della farfalla (2006, Mondadori) Pietro Citati descriveva così il lavoro dello scrittore statunitense: «Spesso cominciava a scrivere alle cinque di sera: muoveva velocemente la matita su grandi fogli di carta; e restava al tavolo fino alle tre di notte, salvo quando usciva a ubriacarsi nei bistrot di Parigi. Beveva caffè e ancora caffè: dopo cinque o sei ore si alzava dal tavolo pallido e tremante, con ansia allo stomaco e mangiava qualcosa. Inseguiva un rigore e una spietatezza che non aveva mai conosciuto».
La fragilità di Gatsby (così come quella di Fitzgerald) si fa strada anche nella rappresentazione grafica del romanzo, a partire dalle copertine, come ha raccontato approfonditamente Paolo Simonetti, professore associato di Lingue e letterature Angloamericane: da Francis Cugat (autore della copertina più celebre), alle più radicali graphic novel ispirate all’opera immortale di Fitzgerald.
Il grande Gatsby è, infatti, anche l’opera del risveglio, del nostro guardare le cose esattamente come sono, del nostro disvelamento di fronte a ciò che abbiamo solo sognato. È forse per questo che dopo un secolo, continua a parlarci.




