Perché c'è una "gerontocrazia" in America?
Il rinnovamento, un tempo sentito come valore imprescindibile in politica, sembra aver ceduto il passo alla voglia di affidabilità. Una sicurezza che però spinge verso l'apatia elettorale
Succede spesso nella politica americana che i leader del Congresso siano anziani e appaiano un po’ malandati. Sul finire del Novecento gli analisti politici si interrogavano su quanto il senatore Repubblicano Strom Thurmond, che andava verso i cent’anni d’età, fosse nel pieno delle sue facoltà oppure no e che quindi lo staff lo aiutasse molto. Oggi ci si pone la medesima questione sulla salute di Mitch McConnell, che rispetto a Thurmond è molto più giovane (ottantuno anni compiuti a febbraio), ma da fine luglio a oggi ha avuto due malori non meglio definiti.
McConnell, che è il leader Repubblicano al Senato dal 2007, ha avuto due episodi di paralisi verbale di fronte ai microfoni dei giornalisti, senza chiarire quale fosse l’origine. Per McConnell questo può essere l’episodio che farà finire la sua esperienza quale personalità di vertice al Congresso, da un paio di anni viene fortemente criticato da Trump perché ritenuta troppo vicina al Presidente, mentre nel recente passato lo stesso Senatore del Kentucky era visto come l’oscuro burattinaio che aveva consentito a Donald Trump di nominare tre giudici conservatori alla Corte Suprema usando tattiche politicamente estreme.
McConnell però non è il solo politico che ha fatto coniare a qualche analista l’espressione “gerontocrazia americana”. Non è il solo, ovviamente: Donald Trump, incontrastato dominatore del campo Repubblicano, ha compiuto 77 anni a giugno e i suoi discorsi recenti di certo non brillano per coerenza argomentativa, mentre il suo avversario Joe Biden ne compirà 81 il prossimo novembre, stessa età di McConnell. Oggi fanno sorridere le obiezioni che nel 1980 venivano poste nei confronti del sessantanovenne Ronald Reagan, troppo anziano per la Presidenza degli Stati Uniti. Soltanto alla Camera dei Rappresentanti, con le dimissioni di Nancy Pelosi lo scorso novembre, sostituita dal cinquantaduenne Hakeem Jeffries, c’è stato un minimo di turnover, mentre al Senato anche i dem sono guidati dal settantatreenne Chuck Schumer.
Ci sono delle ragioni per spiegare questo fenomeno: da anni l’opinione pubblica, dopo l’innamoramento della figura di Barack Obama a cui è seguito un veloce disincanto, non vuole saperne di novità, preferendo affidare il proprio destino a figure ritenute più affidabili. Così è successo anche per lo stesso Donald Trump, apparentemente il maggiore outsider della storia politica americana: già nel 2015 godeva di una grandissima fama mediatica risalente addirittura ai tardi anni Ottanta. Queste scelte però hanno un prezzo: alla lunga possono far risalire l’astensionismo.
Come indicano i sondaggi, sia i Repubblicani che i Democratici preferirebbero votare un’alternativa a Biden e Trump. Anche se, a conti fatti, quando l’alternativa si materializza, ritornano sui loro passi, come nel caso di Ron DeSantis: fino a qualche mese fa il quarantaquattrenne Governatore della Florida era visto come il futuro, ora invece appare come troppo impacciato ed eccessivamente concentrato su sondaggi passeggeri e battaglie ideologiche contro le grandi corporation e le università cosiddette “woke”.
Quello che però ha mantenuto così a lungo questa gerontocrazia è il timore per ciò che può venire dopo: nel primo biennio di Presidenza di Joe Biden la collaborazione con Mitch McConnell è stata fondamentale e lo è ancora per garantire all’Ucraina una costante fornitura di materiale bellico. Entrambi vengono dall’epoca della Guerra Fredda e ritengono naturale una collaborazione per il bene comune dell’America. Uno come il senatore Rick Scott, invece, che ha sfidato la leadership di McConnell poco dopo le elezioni di midterm del 2022, ritiene che prima di tutto venga l’interesse di parte. Non una buona notizia per il funzionamento del sistema politico americano, da anni reso più fragile dalla costante polarizzazione tra due schieramenti politici che ormai faticano a trovare consensi comuni anche su cose minime.
E le nuove leve del Congresso, anche quelle più mediatizzate, non lasciano ben sperare in questo senso.