Per le maggioranze al Congresso è lotta all’ultimo voto
Parallelamente alla corsa alla Casa Bianca, democratici e repubblicani battagliano per il controllo di Camera e Senato
Manca ormai pochissimo all’election day del 5 novembre. Sondaggisti, analisti e opinionisti cercano insistentemente nuovi dati, prospettive dell’ultim’ora che possano dare maggiori certezze riguardo chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca. Riuscirà Donald Trump a tornare Presidente o Kamala Harris diventerà la prima donna a capo degli Stati Uniti?
In questi mesi si sono scandagliati i punti di forza e le debolezze dei due candidati, le loro posizioni in economia e in politica estera, nel tentativo di prevedere non solo il risultato elettorale, ma anche le eventuali conseguenze di una vittoria di uno o dell’altra. A prescindere da chi sarà dichiarato vincitore, tuttavia, non va dimenticato che in questi giorni verrà decisa un’altra sfida politica forse altrettanto importante: quella per il controllo del Congresso.
È una prassi che si ripete ciclicamente: ogni due anni gli americani sono chiamati a eleggere un terzo del Senato e la totalità della Camera dei Rappresentanti. Questo meccanismo si intreccia con il mandato presidenziale, della durata di quattro anni, vale a dire che in una tornata elettorale su due si rinnovano sia l’organo legislativo che quello esecutivo. In questo 2024, quindi, è l’intero futuro politico degli Stati Uniti a essere in gioco. La corsa alla Casa Bianca rimane cruciale, ma il prossimo Presidente degli Stati Uniti troverebbe enormi difficoltà nel governare se il suo partito fallisse nell’assicurarsi il controllo del Congresso.
La disgiunzione tra legislativo ed esecutivo, o divided government, non è rara nella politica americana. George H. W. Bush dovette convivere per tutto il suo mandato con un Congresso a maggioranza Democratica, e il suo successore, Bill Clinton, riuscì a mantenere il controllo delle camere solo fino alle prime elezioni di midterm, cui seguirono sei anni di intensa battaglia contro la maggioranza Repubblicana. Più recentemente, lo stesso Barack Obama ha dovuto affrontare il suo ultimo biennio alla Casa Bianca combattendo l’ostruzionismo Repubblicano a Capitol Hill, un’opposizione resa possibile dal trionfo del GOP nel 2014.
È quindi assolutamente plausibile che il popolo americano esprima una preferenza per il Presidente e scelga invece di premiare il partito rivale al Congresso. Il voto infatti è disgiunto e non è infrequente che, specialmente in alcuni stati, i cittadini abbiano forti sentimenti per un candidato locale a prescindere dal suo partito di appartenenza. In un’elezione dall’esito incerto come quella imminente, quindi, le maggioranze di Camera e Senato appaiono estremamente in bilico, e può bastare la minima fluttuazione a ribaltarle. Sebbene uno scenario di divided government immediatamente dopo le presidenziali non si presenti da quasi trent’anni, i margini di quest’anno sono abbastanza ridotti da renderlo concreto. Dovesse accadere, la libertà di manovra dell’amministrazione federale ne risulterebbe estremamente ridotta, e senza un clima di collaborazione intrapartitico si preannuncerebbe uno stallo politico a Washington.
Al Senato
Tra le due camere, quella in cui la situazione appare più definita è il Senato, dove il Partito Repubblicano sembra destinato a riprendersi una leadership che manca dal 2020. Le elezioni midterm del 2022 avevano consegnato ai Democratici la maggioranza più risicata possibile, con il voto decisivo della Vicepresidente Kamala Harris come unico fattore a rompere un equilibrio perfetto: cinquanta Senatori per partito. Oggi, questo status quo sembra più che mai a rischio.
Come detto, solo un terzo dei seggi al Senato saranno rimessi in gioco in questa tornata elettorale, ma in una situazione così in bilico l’attuale partito di maggioranza non può permettersi di perdere terreno su nessun fronte, e i Democratici appaiono in svantaggio in molti stati. La non ricandidatura del Senatore indipendente della West Virginia Joe Manchin dovrebbe consegnare un posto in più al Partito Repubblicano, un risultato che da solo basterebbe a sovvertire la maggioranza. Per mantenerla, il partito di Harris dovrebbe recuperare un Senatore altrove (ad esempio in Nebraska o in Texas, dove insegue di pochi punti), ma i Repubblicani minacciano di conquistare seggi anche in Montana e Ohio, strappandoli agli incombenti Democratici. Una complicata partita a scacchi che ha visto i due partiti investire milioni di dollari nelle campagne ritenute cruciali.
A oggi una maggioranza Repubblicana al Senato sembra quindi probabile, il che favorirebbe enormemente l’agibilità politica di una seconda presidenza Trump, mentre diventerebbe un ostacolo notevole a un’eventuale amministrazione Harris. Va ricordato, ad esempio, che compito della camera alta è confermare le designazioni del Presidente per il proprio gabinetto, così come le nomine giudiziarie, comprese quelle della Corte Suprema. Visto il clima di scarsa cooperazione bipartisan che ha dominato gli ultimi anni di politica americana, è legittimo attendersi frizioni su questo fronte nel caso in cui il partito presidenziale non controlli il Senato.
Alla Camera
Diverso è il discorso alla Camera dei Rappresentanti, dove tutti i 435 seggi sono in discussione. Storicamente, è difficile che il partito che elegge il presidente non riesca a ottenere anche il controllo la Camera, l’ultima volta successe per l’appunto a Bush padre nel 1988, ma, nel contesto attuale, rimane uno scenario da non escludere. Anche in questo caso le midterm del 2022 avevano certificato una maggioranza minima, ma in questo caso a favore dei Repubblicani, i quali detengono attualmente 220 seggi contro i 212 dei Democratici. Le principali agenzie di analisi hanno individuato i distretti decisivi di questa tornata, ma in molti di questi si preannunciano dei testa a testa fino all’ultimo voto, e fare previsioni realistiche su quale partito sia in vantaggio risulta difficile. Sia le elezioni del 2020 sia le midterm del 2022 avevano peraltro restituito dei risultati alla Camera ben diversi da quelli attesi dai sondaggi. Anche per questo, a poche ore dal voto, i principali media esitano ad esporsi eccessivamente, ben consapevoli che qualsiasi previsione su larga scala, arrivati a questo punto, sarebbe azzardata.
Qualche storia interessante può essere comunque raccontata, anche per approfondire le sfaccettature di un elettorato che è più variegato di come le mappe raccontano. Si può osservare, per esempio, come alcune dei confronti più accesi si svolgano in stati come la California o New York, dove una vittoria Democratica è scontata sia al Senato che alle presidenziali. Per le elezioni della Camera, tuttavia, contano i distretti, e per questo i Repubblicani cercano di strappare seggi nelle regioni più conservatrici di stati profondamente liberali, o di mantenere quelli ottenuti. È il caso del distretto 22 della California, nella zona rurale della Central Valley, dove il voto latino sarà decisivo per assegnare il seggio al Democratico Rudy Salas o confermare il Repubblicano David Valadao. O ancora della facoltosa Orange County, che il GOP non vince dal 2000 ma spera di riottenere dopo il ritiro dell’attuale rappresentante in carica Katie Porter.
L’assegnazione di questi seggi, che sarebbe secondaria in molti contesti, è oggi al centro dell’attenzione non solo degli analisti americani, ma del mondo intero.
L’importanza dei contesti locali
L’estrema incertezza intorno al voto di novembre è indubbiamente l’effetto delle profonde divisioni che attraversano gli Stati Uniti a livello nazionale. Tuttavia, la lezione che emerge analizzando lo scacchiere elettorale è che l’influenza delle dinamiche locali non può essere sottovalutata. In elezioni combattute come quelle di quest’anno, dove ogni seggio rischia di essere decisivo, il risultato di pochi distretti da alcune migliaia di abitanti rischia di determinare gli equilibri politici di tutto il Paese. Questo vale sicuramente per le presidenziali, dove saranno verosimilmente ancora i pochi swing states a rivelarsi decisivi, ma ancora di più per le maggioranze di Camera e Senato, che, come già due anni fa, potrebbero venire assegnate per pochissimi voti.
Sono peculiarità del sistema federalista, che premia la rappresentanza locale a discapito di una democrazia più diretta, con conseguenze portate all’estremo dalla polarizzazione del clima politico. In qualsiasi direzione si vada, è plausibile che a determinare la governabilità della prossima legislatura saranno le preferenze di poche migliaia di americani. Portando questo ragionamento all’estremo, chi riuscirà a portare la proposta politica più soddisfacente negli stati e nei distretti chiave potrà controllare il Paese e determinarne la direzione a breve termine. Anche in politica estera. Per certi versi, a stabilire l’impegno americano in Ucraina o gli accordi economici con l’Europa saranno gli elettori di Orange County.