Pearl Harbor: un attacco imprevedibile?
80 anni fa l'aviazione giapponese colpì la flotta statunitense di stanza a Pearl Harbor, nell'isola Oahu, alle Hawaii. Ma è vero che il presidente Roosevelt sapeva già dell'attacco?
Nell’anniversario della giornata di Pearl Harbor, e nonostante l’attacco giapponese costituisca ad oggi uno degli episodi più minutamente sezionati della storia contemporanea, si impone come utile una serie di riflessioni a fronte delle striscianti teorie della cospirazione che ancora circondano questo evento nella percezione popolare.
Risale infatti a non più tardi di un anno fa la pubblicazione, da parte di una casa editrice di rilievo come la Praeger, dell’ennesima monografia che rilancia in grade stile la vecchia tesi in base alla quale Franklin Delano Roosevelt avrebbe saputo dell’imminenza dell’attacco, ma avrebbe nondimeno deciso di tacere per ottenere quel casus belli a sua volta necessario per portare avanti la strategia del Germany First. Cerchiamo pertanto di fare un po’ di chiarezza, alla luce di quelli che sono oramai dei punti saldi acquisiti dalla moderna storiografia in materia.
L’approccio americano
Sul perché l’attacco di Pearl Harbor apparisse allora molto meno prevedibile di quanto appaia oggi pesano due ordini di motivi. Il primo comprende una serie di lezioni rilevanti per le relazioni internazionali, metabolizzate sin dal 1967 allorquando Nobutaka Ike diede alle stampe la traduzione integrale delle trascrizioni delle Imperial Conferences e delle Liaison Conferences nipponiche che costituirono l’ossatura del processo decisionale destinato a portare al 7 dicembre: se ne deduce che la logica della deterrenza può fallire anche di fronte ad una sproporzione di forze tanto evidente come quella esistente fra Giappone e USA nel 1941.
Si tratta di una lezione che non a caso maturò nel contesto intellettuale degli anni Sessanta, allorquando gli Stati Uniti erano alle prese con una politica della deterrenza nucleare nei confronti dell’URSS la cui posta in gioco era stavolta ben più alta. Washington non riteneva possibile che Tokyo optasse per la guerra perché questa avrebbe comportato la sua inevitabile rovina.
Per tal motivo, sin dagli anni Trenta, gli USA ritennero che, a fronte dell’impossibilità razionale della guerra, una diplomazia coercitiva fatta di sanzioni economiche e di ritorsioni finanziarie (dettagliatamente ricostruita da Edward S. Miller nel suo Bankrupting the Enemy, USNI, 2007) potesse centrare l’obiettivo di frenare l’espansionismo nipponico nell’Asia continentale.
Il Giappone senza nulla da perdere
Confinato su di un arcipelago povero di materie prime, dipendente dal commercio internazionale ed in buona misura anche dagli investimenti esteri, il Giappone finì per trovarsi in una condizione per cui le sanzioni statunitensi minacciavano realmente di strangolare il progetto politico portato avanti quantomeno dall’invasione della Manciuria del 1931: percependo simili provvedimenti alla stregua di un attentato agli interessi vitali della nazione, lungi dal piegarsi i vertici politico-militari nipponici reagirono invece con violenza, optando per la soluzione militare.
Quantunque razionalmente costituisse un’opzione disperata, agli occhi dei decision makers di Tokyo essa offriva pur sempre qualche chance in più rispetto al disarmo ed al ritiro unilaterale dalla Cina che costituivano l’obiettivo ultimo della diplomazia statunitense: a maggior ragione, se essi fossero riusciti a coinvolgere gli USA in una guerra d’attrito tale da ammettere come soluzione una pace negoziata e non l’imposizione di una resa incondizionata da parte del vincitore.
Washington riteneva di poter adoperare mezzi pacifici per contenere l’espansionismo nipponico e così salvaguardare l’integrità territoriale della Cina professata dalla tradizionale Open Door Policy, cardine della diplomazia statunitense in Asia sin dal 1899: così facendo, e fidando proprio nella logica lineare della deterrenza, gli USA finirono invece per spingere verso la guerra dei decisori che non sposavano affatto la medesima logica e che erano disposti a giocare d’azzardo. Che il funzionamento della deterrenza si basi sulla simmetria è lezione utile anche per il presente.
Parallelamente occorre anche valutare la consapevolezza da parte di Washington delle intenzioni aggressive del Giappone alla luce degli sforzi statunitensi nel decrittare i codici giapponesi. Alla data del 7 Dicembre gli americani non avevano violato né il JN-25a, né tantomeno il JN-25b (introdotto appena tre giorni prima), ovvero i due codici adoperati specificamente dalla Marina giapponese per comunicare i propri spostamenti: ragion per cui i vertici della U.S. Navy non avrebbero potuto tracciare la forza inviata a colpire le Hawaii. Il Signals Intelligence Service dell’Esercito era tuttavia riuscito a decifrare Purple, il codice diplomatico giapponese; e da Purple si evinceva una imminenza della rottura delle relazioni diplomatiche da parte del Giappone e quindi l’eventualità di un attacco imminente.
Il punto capace di spiegare il singolare fallimento statunitense nel rispondere al moltiplicarsi delle avvisaglie di crisi è forse ravvisabile proprio in questa sinergia di differenti fattori: è fatto noto che all’indomani dell’attacco l’ammiraglio Harold R. Stark, allora Chief of Naval Operations, venisse accusato di aver mancato di comunicare ai vari comandi - fra cui quello di Husband Kimmel - la necessità di prepararsi all’apertura delle ostilità con l’urgenza richiesta dalla situazione. Perché Stark fallisse a tal proposito, dovendo per conseguenza rassegnare le dimissioni, non è mai stato completamente accertato e ha offerto notevole margine di manovra alle speculazioni dei complottisti.
Una componente di questo fallimento è ravvisabile nella nebbia di guerra: quand’anche Stark avesse ritenuto imminente un attacco, non era comunque in grado di predire ove esso avrebbe avuto luogo, e Pearl Harbor non era certo obiettivo più probabile delle Filippine. Ma al contempo si può ipotizzare che, a prescindere dalle evidenze fornite da Purple sulla postura aggressiva assunta dai giapponesi, sia Stark che più in generale l’establishment di Washington dessero in quell’occasione segni di singolare letargia proprio perché i decision makers statunitensi si erano formati alla luce di una politica della deterrenza incline a ritenere un attacco giapponese poco plausibile in quanto politicamente suicida. Una convinzione che avrebbe portato l’intera catena di comando, da Stark, al COMINCH Ernst J. King, su su sino al presidente Roosevelt, a sottovalutare le evidenze fornite dall’intelligence.
Pearl Harbor come spartiacque per la guerra navale
Il secondo ordine di ragioni per cui la giornata del 7 dicembre non era affatto così prevedibile riguarda propriamente quella che potremmo chiamare la grammatica di una simile operazione. Nel 1941 le operazioni aeronavali contro installazioni a terra erano oramai una consolidata realtà con cui gli statunitensi avevano preso dimestichezza sin dai Fleet Problems (così erano chiamate le grandi esercitazioni condotte dalla U.S. Navy nel periodo interbellico) degli anni Venti e Trenta: basterà ricordare che nel corso del Fleet Problem IX del gennaio 1929 la Black Force incentrata sulla portaerei USS Saratoga aveva simulato con successo un attacco aereo contro le chiuse di Gatún e di Miraflores del canale di Panama.
Nel 1935-36, all’apice delle tensioni diplomatiche anglo-italiane scaturite dalla guerra d’Etiopia, si erano poi succeduti i piani abbozzati per ordine dell’ammiraglio sir William Fisher – allora a capo della Mediterranean Fleet – per condurre un attacco aeronavale contro la flotta italiana alla fonda a Taranto. Questi piani avrebbero avuto un’ideale prosecuzione ed un’effettiva realizzazione proprio nella notte di Taranto dell’11-12 novembre 1940, allorquando i velivoli di una singola portaerei riuscirono a danneggiare più o meno gravemente tre navi da battaglia ed un incrociatore pesante. Gli esiti dell’Operation Judgement sarebbero stati oggetto dei rapporti di Naito Takeshi, uno degli attaché militari all’ambasciata giapponese di Berlino, poi studiati con attenzione dallo Stato Maggiore della Kaigun in previsione dell’operazione contro le Hawaii, sebbene essi finissero per avere un impatto limitato sulla pianificazione dell’operazione.
Come infatti argomentato in modo convincente da Jonathan Parshall e J. Michael Wenger in un articolo apparso sul Naval History Magazine (Pearl Harbor’s Overlooked Answer, December 2011), al successo di Pearl Harbor concorse in modo determinante la natura concettualmente rivoluzionaria dei principii operativi alla base della Kidō Butai (Forza Mobile) e l'incapacità da parte dell'intelligence statunitense di tenere traccia di simili sviluppi: essi si situavano infatti ben oltre quanto era ritenuto allora praticabile nell'ambito delle operazioni aeronavali.
Come osservano gli autori – e come si è cercato di illustrare succintamente – all’epoca dell’attacco giapponese tali operazioni contemplavano solitamente l’impiego di singole portaerei: la HMS Illustrious a Taranto, e i soli 21 aerosiluranti impiegati in quella circostanza dagli inglesi, esemplificano bene tale concetto. I giapponesi, per contro, concentrarono nella Kidō Butai 6 portaerei per un totale di 408 velivoli, il cui compito sarebbe stato quello di portare a termine un attacco contro un obiettivo distante 4.000 miglia nautiche dalle basi di partenza. Non solo non si era mai tentato nulla del genere: non vi erano quasi blueprints, alla base di una simile azione, che gli statunitensi potessero carpire in anticipo. Gli ostacoli logistici erano realmente inauditi e la stessa Kidō Butai costituiva una forza di recentissima formazione, nata praticamente per condurre l’attacco contro Pearl Harbor e forgiata dal nulla nei mesi di intenso addestramento che precedettero il 7 Dicembre.
Raramente vi sono state operazioni militari che hanno costituito, da un punto di vista tecnico, logistico e operativo uno spartiacque fra un prima e un dopo: l’attacco a Pearl Harbor, a prescindere dalle sue implicazioni e ricadute politiche, rappresenta un simile spartiacque per la guerra navale. Esso distingue nettamente un prima e un dopo. Noi apparteniamo a quel dopo e stentiamo spesso a comprendere, dal nostro punto di osservazione, quanto potesse apparire nebuloso e imprevedibile il futuro che proprio allora si andava dischiudendo.