Non è più il tempo della frugalità
Successi e insuccessi recenti della diplomazia climatica statunitense.
L'intervento del Presidente Biden alle Nazioni Unite dello scorso martedì è un inno alla diplomazia climatica, alla cooperazione globale, alle alleanze e alla lotta all'autocrazia (cinese e russa, è chiaro).
In un discorso di trenta minuti all'Assemblea Generale, Biden ha fatto leva sui disastri ambientali che hanno devastato il suo Paese negli ultimi mesi e sull'emergenza pandemica per richiamare i suoi interlocutori all'unità.
Ma già nel 2009 l'Occidente ricco aveva promesso di investire fino a 100 miliardi di dollari annui (era l'anno della Commissione Europea guidata da Barroso) nei paesi in via di sviluppo entro il 2020, per contrastare gli effetti del cambiamento climatico nelle zone più fragili del mondo. Effetti dovuti soprattutto alle scelte di consumo proprio di quell'Occidente ricco.
Di fronte all'evidente fallimento, nel mondo della diplomazia climatica si respira ad oggi un'aria tesissima. E non solo perché all'indomani della pubblicazione dell'ultimo rapporto dell'IPCC, il Segretario dell'ONU António Guterres ha espresso tutto il suo disappunto sulle scelte di investimento (decisamente carenti) dei Paesi membri nella lotta al cambiamento climatico.
Gli Stati Uniti che, tralasciando la parentesi trumpiana, si sono presentati come guida alla lotta alla crisi climatica mondiale, arrancano dietro alla Cina che, negli ultimi mesi, ha preso decisioni sempre più eclatanti. Dalla chiusura delle fabbriche di mining di criptovalute alla decisione, arrivata ieri, di non voler più costruire centrali a carbone all'estero.
Nel suo video-messaggio alle Nazioni Unite, Xi Jinping ha ribadito l'impegno del suo Paese a sostenere il percorso di crescita dei Paesi in via di sviluppo cui la Cina, senza mai interessarsi della politica interna dei territori che finanzia, ha dedicato gran parte dei suoi investimenti negli ultimi anni. E proprio in quei luoghi, afferma Xi, verrà data priorità all'energia verde, un po' rivoluzionando la logica sottostante alla Belt&Road Initiative (la nuova Via della Seta), che avrebbe dovuto portare avanti ingenti investimenti in combustibili fossili.
Sembra quantomeno poco plausibile, dunque, che la promessa possa essere mantenuta (perlomeno nel breve termine) alla luce degli investimenti previsti dall'iniziativa menzionata, soprattutto in mancanza di un piano alternativo, che forse c'è ma non è stato ancora reso pubblico.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, si affidano all'inviato speciale per il clima John Kerry che, dall'inizio del suo mandato, ha visitato più di 14 paesi in nove mesi, nel suo sforzo di convincimento per invertire la rotta mondiale nella lotta alla crisi ambientale, affidandosi al Paese a stelle e strisce.
Kerry, si è detto molto entusiasta delle dichiarazioni di Xi, soprattutto dopo il suo recente incontro con il corrispettivo cinese Xie Zhenhua, tenutosi due settimane or sono. Si erano lasciati lo scorso aprile dopo aver firmato una dichiarazione congiunta in cui traspariva la preoccupazione comune per il clima e l'intenzione, da parte di entrambi, di favorire un dialogo tra le due potenze sul tema. L'unico sul quale entrambe hanno deciso di profondere sforzi comuni nonostante le divergenze sugli altri fronti.
Proprio in quella sede, uno degli obiettivi di Kerry era stato convincere Pechino a sospendere la produzione di centrali a carbone, perlomeno a livello internazionale. Dunque un primo successo per la diplomazia statunitense ma solo un piccolo tassello nella lotta al cambiamento climatico in vista della COP26 dove probabilmente emergeranno tutte le difficoltà di quei paesi che ancora non sono stati in grado di (o non hanno voluto) mettere in atto piani efficaci.
L'ex Segretario degli Stati Uniti ne è consapevole e, nel suo impegno di inviato speciale per il clima, ha posto le basi per una strategia diplomatica incentrata su un maggior dialogo e una più diffusa comprensione delle necessità dei Paesi in via di sviluppo, cui spesso sono state imposte decisioni dall'alto o avanzate richieste inattuabili.
In linea con il piano prefigurato da Kerry e il suo team, il presidente Biden, durante il suo intervento alle Nazioni Unite, ha affermato di voler quadruplicare l'impegno assunto ad aprile a investire nei paesi in via di sviluppo, portandolo a circa 11,4 miliardi di dollari. Resta da capire in che modo riuscirà a convincere il Congresso a raggiungere il traguardo prefigurato e dove verranno orientati i maggiori investimenti.
Tuttavia, secondo quanto riportato da una recente analisi del think thank inglese Overseas Development Institute, gli Stati Uniti avrebbero finora pagato solamente il 4% della loro "fair share" che corrisponderebbe invece a circa 40 miliardi annui.
In un Congresso altamente diviso, dove la maggioranza dei Democratici è appesa a un filo, si sta faticosamente trovando un accordo per approvare entro il 30 settembre un piano di aiuti per gli Stati che maggiormente hanno subito gli effetti dei disastri meteorologici degli ultimi mesi.
Eppure storicamente i repubblicani hanno sempre osteggiato politiche di lotta al cambiamento climatico e raramente hanno sostenuto politiche di redistribuzione verso i paesi in via di sviluppo; sembra dunque poco plausibile che Biden possa riuscire nell'impresa, con il GOP che va rafforzandosi in vista delle elezioni di midterm del 2022.