No, Trump non è l'erede di Reagan
Vorrebbe esserlo, ma le differenze sono troppe. Un argomento in particolare li pone in netta opposizione: l'approccio all'immigrazione.
C'è un tema, in particolare, su cui Donald Trump si è reso riconoscibile nell'arco della sua carriera politica nel Partito Repubblicano: la lotta all'immigrazione.
Dal divieto di emissione delle green card ai cittadini dei Paesi musulmani, al celeberrimo muro al confine con il Messico da far pagare a quest'ultimo, Trump si è sempre distinto per le sue proposte iperboliche. Proposte che, in alcuni casi, hanno sconfinato nella malignità.
La spietata politica di Trump in merito alle famiglie di immigrati illegali è in tal senso emblematica. Essa prevedeva la separazione tra i genitori, che venivano rimpatriati o incarcerati, e i figli, affidati ai servizi sociali statunitensi. In altre parole, le famiglie venivano fatte a pezzi. Una misura disumana, il cui unico scopo era la mera deterrenza: se passi il confine, ci teniamo i tuoi figli.
Questo provvedimento è durato pochi mesi, da maggio a giugno 2018, e fu poi soppresso a seguito delle proteste interne e internazionali. Durante il mandato di Donald Trump più di cinquemila bambini immigrati furono separati dai genitori, dei quali tremila nei soli due mesi di applicazione della misura. Si scoprì solo in seguito che il ricongiungimento non era pianificato, tanto che due anni dopo, nel 2020, ancora non si trovavano le famiglie di svariate centinaia di bambini.
Il feticcio di Donald Trump (e non solo)
Tuttavia, questo cozza con un altro aspetto. È indubbio che a Donald Trump piaccia molto essere associato al Presidente che più di tutti è il feticcio dei conservatori: Ronald Reagan.
Reagan, per i Repubblicani, fu una pietra miliare. Con la cosiddetta Reaganomics, fu l'artefice del rilancio economico americano degli anni Ottanta dopo la peggiore recessione dai tempi della Grande Depressione, e diede la spallata definitiva all'Unione Sovietica: dimostrò la superiorità economica e il benessere degli Stati Uniti, cavalcando una popolarità che non fu mai più raggiunta da nessun altro Presidente repubblicano dopo di lui.
Tuttavia, la percezione comune su Reagan poi passata alla storia assomiglia più a un mito che alla realtà. Dal celebre taglio delle tasse poi aggiustato con successivi aumenti, alla corsa alle armi quale motivo del crollo di un URSS che quasi certamente sarebbe caduta lo stesso, passando per l’aumento della spesa pubblica e il fallimento totale nella lotta all'AIDS, il quadro che emerge è piuttosto diverso dalla narrazione che ne fa chi prova a raccoglierne l'eredità.
Eredità che in molti hanno cercato d’intestarsi. Tuttavia, nessuno è stato in grado di far parlare di sé allo stesso modo di Donald Trump.
Reagan era noto per la sua imprevedibilità, e sotto questo aspetto Trump lo ricalca e lo supera. La sua politica economica ha imitato la Reaganomics (tagli alle tasse per i ricchi, deregulation a spese soprattutto dell’ambiente, spesa pubblica al rialzo), ma ha fallito sul lato del protezionismo – tentato addirittura verso i propri alleati – e delle infrastrutture, annunciate e mai realizzate. In particolare, il simbolo dell’approccio di Trump sull'immigrazione: il muro con il Messico.
Trump mente su Reagan
Quando Donald Trump è messo alle strette, ha il vizio di usare uno scudo retorico ormai famigliare: «anche Reagan l'avrebbe fatto». È successo con l’appena citato muro, come possiamo vedere in questo tweet del 2018.
Quanto affermato da Trump è falso. Reagan ha mostrato in innumerevoli occasioni una consistente apertura verso gli immigrati, la cosiddetta "porta aperta".
Nel 1980 si trovava in Texas, uno stato nel quale l’argomento è molto sentito. Si trattava di un incontro importante, un dibattito con l'avversario George H.W. Bush per le primarie repubblicane. Gli venne chiesto di esporre ciò che pensava in merito all'immigrazione illegale. Questa fu la sua risposta:
«Piuttosto che discutere a proposito di erigere una recinzione, perché non troviamo un modo per individuare i problemi che ci accomunano e fare in modo che [i migranti, N.d.R] possano venire qui legalmente, con un permesso di lavoro, e che mentre lavorano e guadagnano paghino le tasse qui? E quando vorranno tornare indietro possano farlo, possano attraversare il confine. E aprire il confine, in entrambi i sensi, comprendendo i loro problemi.»
In un'altra occasione, nel 1984, durante un dibattito presidenziale, Reagan si disse favorevole all'amnistia per chi aveva messo radici negli Stati Uniti, anche nel caso in cui l'ingresso fosse stato illegale. Una parola, amnistia, oggi impronunciabile nel GOP a trazione trumpiana.
Per non parlare del celebre discorso di addio, alla fine del suo ultimo mandato presidenziale, contenente anch'esso un riferimento inequivocabile alla politica della "porta aperta" ai sogni portati dai nuovi arrivati, quale linfa vitale dell’american dream.
Opportunità vs nativismo
Confini aperti, libertà di muoversi per lavorare, mutua comprensione. Una posizione diametralmente opposta a quella dei neocon prima e dei MAGA poi. Soprattutto, in netta opposizione alla visione nativista di Donald Trump, al suo muro sul confine e alla separazione delle famiglie come deterrente alla migrazione che, altrimenti, “diluirebbe” gli americani: di recente, Trump ha sostenuto che gli immigrati clandestini «avvelenano il sangue della nostra nazione».
Che Donald Trump abbia posizioni molto diverse rispetto a Reagan è noto da tempi non sospetti. Nel 1998 Trump mise a tacere una class action contro di lui spendendo ben 1,4 milioni di dollari. L’oggetto del contendere era il ricorso a manodopera illegale, sottopagata e sottoposta a turni di dodici ore durante la costruzione della Trump Tower, nel 1980. Si trattava per lo più di immigrati irregolari polacchi, scappati dal comunismo per finire sfruttati in stato di semi schiavitù dal futuro Presidente.
Un paragone improbabile
A differenza di Donald Trump, Ronald Reagan credeva che gli immigrati fossero il motore di quella crescita economica che stava portando prosperità per tutti, sia per i nati negli Stati Uniti che per chi arrivava da fuori. Non solo si posizionava in maniera aperturista sul tema dell'immigrazione rispetto a Trump ma, addirittura, più di alcuni Democratici del suo tempo.
Durante un convegno nel 1980 al Liberty State Park, nei pressi della Statua della Libertà e in una roccaforte democratica, Reagan fece un discorso inequivocabile. Con una tempistica che sembra un contrappasso dantesco, mentre Trump sfruttava clandestini Reagan pronunciava queste parole:
«Voglio, più di ogni altra cosa abbia mai desiderato, avere un'amministrazione che attraverso le sue azioni, in patria e nell'arena internazionale, faccia sapere a milioni di persone che Miss Liberty [la Statua della Libertà e, per esteso, gli Stati Uniti, N.dR.] alza ancora la sua lampada accanto alla Golden Door. Attraverso le nostre emittenti internazionali – Voice of America, Radio Free Europe e le altre – trasmettiamo forte e chiaro il messaggio che questa generazione di americani intende continuare a far brillare quella lampada; che questo sogno, questa ultima e migliore speranza dell'uomo sulla terra, questa nazione sotto Dio, non perirà. Porteremo invece avanti la costruzione di un'economia americana che ancora una volta offra reali opportunità per tutti, continueremo a essere un simbolo di libertà e un custode dei valori eterni che tanto hanno ispirato coloro che sono giunti in questo porto d'ingresso. Promettiamo l'uno all'altro sotto lo sguardo di questa Grande Signora che possiamo farlo, e che Dio ci aiuti, renderemo l'America di nuovo grande».
Nella versione inglese, «we will make America great again», il motto scelto da Donald Trump. Alla luce del suo senso originario, è evidente come Trump l’abbia manipolato e sfruttato quale grimaldello per intestarsi l'eredità di Ronald Reagan, svuotandola del suo reale significato.