Poco più di dieci mesi fa, con una decisione che sarebbe stata destinata a rimanere nella storia dello sport USA, veniva regolamentata la NIL Rule, ovvero la regola della NCAA che vietava espressamente agli atleti di guadagnare, grazie ad accordi con terze parti, da Name, Image and Likeness.
Quando è passato ormai quasi un anno, con tutti gli stati, ed i college, che si sono piano piano adeguati alle nuove regole, la NIL Rule viene però messa in discussione, soprattutto a causa dell’enorme movimento finanziario che la circonda; se infatti è giusto che i giocatori al college possano guadagnare dai propri diritti d’immagine, considerando infatti che molti di loro magari non riusciranno a strappare un contratto da titolari nelle leghe professionistiche, non verranno scelti al draft dei rispettivi campionati, o decideranno autonomamente di lasciare il proprio sport, il via libera dato lo scorso anno ha portato a situazioni difficilmente immaginabili fino ad un anno fa, e che sembrano confermare i molti dubbi che i detrattori della decisione della NCAA avevano.
La regolamentazione della NIL Rule ha infatti creato un enorme divario fra le varie università, con le più importanti che si possono permettere di offrire ai propri recruit la possibilità di trovare accordi più importanti rispetto magari a college più piccoli, rendendo così difficile per le università minori riuscire a firmare i migliori talenti disponibili, che decideranno di monetizzare subito, non sapendo cosa gli attenderà in futuro.
Secondo quanto emerso dalla riunione annuale di Coach e dirigenti della PAC12, una delle conference più importanti del college football, la NIL Rule è stata ormai intesa come “Now It’s Legal”: se prima infatti i recruiter dovevano stare attenti anche a comprare un pasto ad un giocatore, rischiando di incappare nelle rigide regole collegiali che avrebbero portato ad una grossa squalifica per il giocatore, e a possibili penalità il College macchiatosi del misfatto, nell’ultimo anno e cose si sono completamente ribaltate, ed abbiamo visto squadre, rimaste anonime per ora, che offrono ai giocatori, anche essi anonimi per il momento, contratti da milioni di dollari per assicurarsi le loro prestazioni una volta diventati grandi abbastanza per giocare al college.
L’altra grande rivoluzione della NIL Rule è stata poi la possibilità per i giocatori di assumere un agente per rappresentarne l’immagine, fino ad ora non possible per i tesserati collegiali, che hanno però portato tutta una nuova serie di problemi per le Università: pensiamo ad esempio a Isaiah Wong, giocatori di University of Miami che, sfruttando la possibilità per i giocatori di trasferirsi da un ateneo all’altro, di comune accordo con il suo agente ha deciso di richiedere a Miami un accordo per i propri diritti d’immagine migliore di quanto aveva al momento minacciando di trasferirsi in caso di una mancata soluzione; dopo un paio di giorni la giovane guardia ha ritrattato, dichiarando di non voler rovinare il proprio rapporto con la scuola e di aver deciso di rimanere a Miami.
La sua storia è però l’esempio lampante di quanto di buono e quanto di pessimo ci sia in questa nuova era della NCAA, dominata dalla NIL Rule: se infatti è ottimo il fatto che i giocatori possono ora guadagnare dai propri diritti d’immagine, riuscendo così a monetizzare il proprio talento sin dal college, finora possibile solo per le rispettive università, la NCAA deve porre dei limiti a queste nuove regole, magari impedendo alle scuole di utilizzare i contratti NIL nel processo di recruiting, per permettere alle piccole Università di avere la propria possibilità e soprattutto per evitare di continuare ad avere situazioni che mettono in cattiva luce sia l’Associazione, che le università, che i giocatori.