Nayub Bukele, il dittatore più cool del mondo
Un ex politico di sinistra diventato sovranista sta trasformando El Salvador: ritratto del nuovo alleato di Donald Trump
Dopo il trionfo nelle elezioni presidenziali del 2019, era evidente che Nayib Bukele stesse marcando un passaggio storico nella storia politica di El Salvador. Il giovanissimo imprenditore di origini palestinesi era diventato sindaco di San Salvador, la capitale dello Stato centramericano, a soli 34 anni. Formatosi all’interno del partito di sinistra FMLN, ne era fuoriuscito nel 2017, preparando il terreno per una carriera indipendente, al di fuori dalle forze politiche tradizionali del Paese.
In pochi, tuttavia, si aspettavano un’ascesa così fulminante: eletto Presidente della Repubblica con più della metà dei voti, Bukele è stato sostenuto da una popolazione evidentemente stanca di una politica ancora legata alle dinamiche della guerra civile salvadoregna, durata tredici anni e conclusasi nel 1992. L’FMLN e il principale partito di destra, Arena, sono infatti i diretti discendenti delle fazioni di quel periodo storico; i primi eredi dell’omonimo gruppo rivoluzionario comunista, i secondi dei paramilitari ultraconservatori dei terribili squadroni della morte.
Bukele, con il suo stile tipicamente millennial e un uso smodato dei social media come mezzo di comunicazione, deve essere apparso a molti come il volto del cambiamento e del superamento di quella lunga fase politica. Fin dagli esordi, tuttavia, è stato possibile intravedere i tratti meno democratici della sua futura presidenza. Come raccontato al New York Times dal professore di scienza politica salvadoregno Alvaro Artiga, all’indomani delle elezioni “c’è la percezione di una persona arrogante, autoritaria, che non si espone al dialogo”.
Le sfide da affrontare non erano di poco conto. El Salvador è uno dei Paesi più poveri dell’America Latina, con quasi un terzo della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà. Come altri Stati della regione, subisce da anni la violenza delle organizzazioni criminali, che controllano intere regioni del Paese sostituendosi completamente al governo centrale. A queste cause strutturali si sommano le conseguenze della guerra civile, uno scenario che ha portato migliaia di salvadoregni a tentare la strada dell’emigrazione, soprattutto verso Messico e Stati Uniti, unendosi spesso alle gigantesche carovane umane che hanno attraversato l’America Centrale.
Bukele ha dimostrato di avere le idee ben chiare su come intervenire. In politica interna ha iniziato sin da subito una feroce guerra alle gang, facendo largo uso della Polizia Nazionale e dell’esercito per sorvegliare, pattugliare e arrestare membri – effettivi o presunti – della criminalità organizzata. Fin da subito è risultato evidente come il rispetto dei diritti dei cittadini e della stessa costituzione salvadoregna fosse secondario per Bukele rispetto ai risultati da ottenere. Intercettazioni ai giornalisti, arresti di massa tra la popolazione civile e assenza di documentazione sull’operato delle forze dell’ordine sono diventati la prassi nel modo di operare dell’esecutivo.
La situazione è peggiorata nel 2022, quando il governo ha introdotto lo “stato d’eccezione” in risposta a un’ondata di violenza da parte delle gang: sono state sospese libertà fondamentali, tra cui la libertà di associazione e il diritto a un giusto processo. Oggi il tasso di omicidi è crollato, così come la violenza delle bande criminali, ma la legalità dei metodi usati dall’amministrazione resta dubbia. Migliaia di cittadini sono stati incarcerati senza prove o hanno subito violenze da parte delle forze dell’ordine.
In politica estera, Bukele ha mantenuto una linea di continuità nell’alleanza storica con gli Stati Uniti, risalente ai tempi della Guerra Fredda. Tuttavia, la sua fedeltà, più che a Washington, sembra appartenere alla figura di Donald Trump, che Bukele aveva ripetutamente incensato già nel 2019 e di cui aveva auspicato il ritorno alla vigilia delle elezioni del 2024. Di Trump, Bukele ammira lo spirito imprenditoriale, la narrazione da “vincente” e un certo culto della personalità, coadiuvato da una tendenza a non considerare le istituzioni democratiche del proprio Paese in funzione di un dialogo più diretto con i suoi cittadini. Il Presidente salvadoregno ha ricevuto endorsement anche dalle principali icone del nuovo conservatorismo americano, da Tucker Carlson a Elon Musk; gradimento pienamente ricambiato.
Questa sintonia si è rapidamente tramutata in collaborazione politica. Da quando Trump è tornato alla Casa Bianca, ha trovato in El Salvador il principale alleato per la sua strategia di repressione dell’immigrazione dall’America Latina: un avvicinamento culminato con il recente accordo che consente la deportazione di criminali venezuelani dagli Stati Uniti direttamente alle carceri di massima sicurezza salvadoregne.

L’alleanza con gli Stati Uniti è funzionale anche dal punto di vista economico: mentre la lotta alle gang sta producendo risultati, per quanto ad altissimo prezzo, lo stesso non si può dire della politica finanziaria di Bukele. Il caso più eclatante riguarda i Bitcoin: nel 2021 El Salvador era diventato il primo Paese al mondo ad accettare la criptovaluta come moneta di corso legale. L’operazione era sembrata da subito una mossa di marketing più che un’efficace manovra economica, e le conseguenze non sono tardate ad arrivare. Le disuguaglianze interne al Paese sono aumentate, così come la corruzione, facilitata dall’introduzione di una valuta di difficile tracciamento, e il governo è stato costretto a rivedere le sue posizioni pur di ricevere aiuti dal Fondo Monetario Internazionale.
Questo episodio è esemplare della visione che Bukele ha per il futuro del suo Paese. In piena linea con la retorica del suo Presidente, gli ultimi anni di governo di El Salvador si sono tramutati in una gigantesca operazione di rebranding, volta a trasformarne l’immagine da luogo di povertà e violenza a paradiso per il turismo e per gli investimenti. Il problema è che, per ottenere questi risultati, Bukele sta stravolgendo la già precaria democrazia salvadoregna, accentrando sempre di più i poteri politici e violando i diritti (umani, politici ed economici) di migliaia di cittadini. La narrazione di sé stesso come uomo autoritario e al contempo innovatore rappresenta al meglio questa visione: egli stesso sui social è arrivato a definirsi “il dittatore più cool del mondo”.
Il governo di Bukele in El Salvador si sta rivelando un esempio calzante di democratura, termine che descrive quei regimi sulla carta democratici ma che presentano numerosi aspetti di autoritarismo, se non addirittura dittatoriali. È un meccanismo che stiamo vedendo moltiplicarsi in giro per il mondo – dalla Turchia di Erdoğan all’Ungheria di Orbán – e che si sta rivelando efficace anche alla prova del voto. In questo senso, il credito acquisito da Bukele con la sua guerra alle gang gli ha garantito un credito con il popolo salvadoregno che non si è ancora esaurito e la sua popolarità all’interno del Paese rimane alta.
Uno stile di leadership che si sposa perfettamente con quello di Donald Trump, dal punto di vista comunicativo oltre che politico. La recente visita di Bukele alla Casa Bianca ha dimostrato come tra i due capi di Stato ci sia un’intesa di visioni che va oltre la convenienza del momento. Oltre a trovare nel salvadoregno un valido alleato per i suoi progetti politici continentali, Trump vede in Bukele una variante dell’approccio governativo che lui stesso sta proponendo negli Stati Uniti: autoritario, ambizioso e spregiudicato.