La fine del multilateralismo à la carte di Justin Trudeau
La crisi ucraina, i problemi interni e i magri risultati elettorali potrebbero fornire l’occasione per un rebranding di una politica estera rimasta per molto tempo senza idee.
Nel marzo 2016 l’allora ministro degli esteri canadese, Stephane Dion, tenne un discorso presso l’Università di Ottawa. Usò il termine «responsible conviction» per descrivere la nuova politica estera dell’appena nato governo di Justin Trudeau. Il Canada si sarebbe riaperto alle relazioni con tutti, inclusi Russia, Iran e Cina, in nome del multilateralismo, della lotta al cambiamento climatico e di un rinnovato ruolo delle Nazioni Unite per promozione dei diritti umani.
Responsible conviction era sì un modo per dare spessore teoretico alla frase «Canada in Back» di Trudeau poco dopo la vittoria, ma serviva anche a giustificare la contraddizione di proclamare da un lato l’importanza dei diritti umani e dall’altro di vendere armi a brutali regimi.
Forse la frase che più colpì di quel discorso fu quella in cui Dion rigettava la classica definizione del Canada come honest broker sulla scena internazionale. Essere percepiti come attori imparziali e nella posizione migliore per negoziare canali di dialogo tra parti può essere un vantaggio nelle relazioni estere, però ha portato nel tempo ad accuse di relativismo morale e debolezza soprattutto da parte del partito conservatore. Questo, nel decennio precedente, aveva cambiato rotta rispetto alle tradizionali politiche del partito liberale, legando il Paese alle iniziative statunitensi, soprattutto nella guerra al terrore, il supporto «through fire and water» a Israele e l’intervento nelle guerre civili libica e siriana. Un modo anche per vincere il consenso di intere comunità di expat presenti nel Paese.
Retorica progressista, politica convenzionale
Quindi quando Trudeau vinse le elezioni nel 2015, le aspettative per un ritorno di politiche progressiste sia all’interno che nelle relazioni estere erano altissime, soprattutto all’estero: questo sia a causa degli annunci che del carisma personale del nuovo primo ministro, ancora di più se visto in contrasto con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca l’anno dopo. Soprattutto per i partner Europei, il Canada si è dimostrato negli anni un alleato molto più affidabile e coerente degli Stati Uniti, portando all’approvazione del CETA (non senza problemi di politica interna) e ad una comune intesa riguardo le sanzioni contro la Russia di Putin.
Tuttavia gli impegni, annunciati in pompa magna durante la presidenza canadese del G7 nel 2018, si sono tradotti in pochi risultati concreti. Il rafforzamento delle istituzioni internazionali è andato arenandosi, soprattutto per via della non facile relazione con il vicino statunitense. La partecipazione del Paese alle missioni ONU si è ridotta negli anni. Riguardo la lotta per arginare gli effetti del cambiamento climatico, Trudeau ha fatto molti annunci e portato avanti iniziative sul piano estero, con investimenti in Africa e la promozione dell’abbandono del carbone entro il 2030. Tuttavia, sul piano interno il Paese è molto indietro rispetto agli obiettivi dell’accordo di Parigi che Trudeau stesso firmò. Il Canada è il quarto produttore e esportatore di petrolio al mondo e l’industria estrattiva non ha subito conseguenze rilevanti malgrado i tanti slogan. L’annuncio poi di una «politica estera femminista» ha portato a molti progetti per la scolarizzazione femminile in Paesi in via di sviluppo, ma con il molto ridotto budget per aiuti internazionali non si è andati molto oltre iniziative spot.
Non siamo più negli anni ‘90
Il tutto si è tradotto nel fallimento nel riuscire a ottenere un posto non permanente nel consiglio di sicurezza dell’ONU nel 2019, anno in cui Trudeau è andato a vincere un altro mandato come primo ministro. Il multilateralismo à la carte del primo ministro, nel tentativo di uscire dall’ombra statunitense e da quello stato di «politica estera non dichiarata» che aveva sempre caratterizzato il Canada, si è andato poi scontrandosi con una realtà globale non così simpatetica come forse poteva essere negli anni ‘90. I tentativi di mediazione con la Russia e con l’Iran non hanno portato risultati; la retorica sui diritti umani si è scontrata con la realtà degli accordi di vendita di armi all’Arabia Saudita e allo Yemen; la normalizzazione dei rapporti con la Cina ha subito un brusco arresto di fronte alla crisi seguita all’arresto del CFO di Huawei nel 2018.
Proprio nel contesto del Pacifico, pur riconoscendone il ruolo fondamentale, Trudeau non è riuscito ad ritagliare un posto per il Paese per compensare almeno un po’ il ritiro del ruolo attivo degli Stati Uniti durante la presidenza Trump. Sicuramente è stato distratto anche dai temi più caldi dell’agenda di questi ultimi anni, la pandemia, le elezioni dello scorso autunno, in cui non è riuscito nell’intento di conquistare una maggioranza più larga per il partito liberale, e soprattutto la protesta degli autotrasportatori contro l’obbligo vaccinale, che ha bloccato il Paese per settimane e che ha avuto conseguenze pesanti sull’immagine internazionale del Canada.
Un’occasione per un rebranding
Tuttavia, proprio a causa di questi risultati contrastanti, e visto il precipitare della crisi ucraina, si è aperta l’opportunità, forse l’ultima per Justin Trudeau, per una ridefinizione di una politica estera più adatta ai tempi e alle sfide della NATO.
I cambiamenti degli ultimi anni hanno ridotto moltissimo l’appeal dei regimi democratici. Mentre gli Stati occidentali lottano con continue divisioni e minacce per lo più interne alla propria stabilità, l’ordine post-guerra fredda è continuamente messo in discussione da ricche autocrazie come la Cina o potenze revansciste in declino come la Russia. Proprio la percepita debolezza dell’occidente e dei suoi regimi democratici porta molti Paesi a guardare verso questi lidi per investimenti, materiale bellico e legittimità.
Il governo canadese, esaurita la spinta progressista iniziale e a corto di idee, sembra cominciare a rendersene conto. Un po’ lo si è visto proprio in questi giorni. Il Canada è tra i Paesi che più si è esposto nell’ambito degli aiuti finanziari e militari al governo di Zelens'kyj , capeggiando quella che è stata chiamata dai giornali «coalition of the willing», con Gran Bretagna e le repubbliche baltiche. La vicinanza geografica alla Russia, il cambiamento nel dibattito pubblico dopo gli ultimi anni di crisi nel Donbass e la presenza nel Paese di una delle più grandi comunità di emigrati ucraini hanno sicuramente influito. «Il Canada, di solito la voce della moderazione, sta agendo come un cowboy nella crisi ucraina» ha scritto il Toronto Star l’altro giorno. «Il Canada, all’interno della NATO, ha il beneficio della geografia: la nostra sicurezza dipende al 100% dalla partnership con gli Stati Uniti» ha detto a Foreign Policy Shuvaloy Majumdar, senior fellow del Macdonald-Laurier Institute. «La nostra esperienza con Russia e Cina è differente e fornisce ragioni per cui i Canadesi possano avere più chiaro di altri quali siano gli interessi dell’alleanza nel confronto con queste minacce».
Nei prossimi mesi diventerà quindi più chiaro se la realtà di un mondo di nuda politica di potenza, in cui leader autocratici non si sentono più costretti a mettere su una facciata di legittimità democratica e presentabilità per piacere al Dipartimento di Stato americano, insieme ai magri risultati elettorali, metteranno la parola fine ad un timido multilateralismo non più adatto ai tempi che corrono.
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