Morto Kissinger, il "Pensatore della Crisi"
Chiamare il defunto segretario di Stato di due presidenti con l'epiteto di "Metternich americano" o di "criminale" di guerra è riduttivo. Ecco perché.
La complessità di una figura come Henry Kissinger, scomparso all’età di cento anni nella sua casa in Connecticut, è difficile da riassumere nelle poche righe di un articolo. Il suo nome è ancora oggi onnipresente sui libri e alle orecchie di un qualsiasi studente di relazioni internazionali e le sue pubblicazioni ancora considerate materia di studio e in preparazione a importanti concorsi, come quello diplomatico. Fino a poco prima della sua morte, Kissinger era ancora una voce autorevole della materia, invitato a conferenze e intervistato su diverse questioni, come ad esempio quella ucraina.
Henry Kissinger è un personaggio dalle ombre molto lunghe, la cui carriera potrà sembrare piena di successi su scala internazionale, con quell’aura dell’indissolubile statista internazionalista, del pragmatico – è dopotutto l’uomo della Realpolitik -, il pacificatore, il diplomatico, ma che nella realtà dei fatti, in retrospettiva, ha piantato il seme che ha generato le future scelte, a volte terribilmente sbagliate, in politica estera statunitense.
Cresciuto nella Germania divenuta nazista, di famiglia ebraica, nel 1938 Kissinger scappa a 15 anni dalla persecuzione rifugiandosi in America con i suoi genitori. Sono in molti a credere che l’approccio realista di Kissinger derivi proprio dall’esperienza adolescenziale nella Germania di Adolf Hitler, nonostante lui abbia sempre negato la cosa. Arrivato a New York, inizia a studiare e abbandona completamente l’accento tedesco, diventando uno studente modello nonostante lo fosse solo part-time, dovendo lavorare di giorno. Nel 1943 interrompe gli studi per arruolarsi nell’esercito degli Stati Uniti, momento in cui diventerà cittadino americano a tutti gli effetti. I tre anni della guerra sono per lui momento di grande distinzione nel campo dell’intelligence e dell’amministrazione, nonostante il grado basso.
Si laurea nel 1950 in scienze politiche ad Harvard, e nello stesso Ateneo ottiene un Master of Arts nel 1951 e il Dottorato nel 1954 con una tesi sui rapporti tra il cancelliere Von Metternich e il segretario di stato britannico Lord Castlereagh. Proprio quella tesi è il fulcro del pensiero in politica estera di Kissinger, con l’introduzione del concetto di legittimità dell’ordine internazionale da parte delle maggiori potenze, un leitmotiv che accompagnerà il suo pensiero politico.
Kissinger arriva nell’Olimpo della storia prima come consigliere per la Sicurezza nazionale dell’amministrazione di Richard Nixon poi per la sua nomina a segretario di Stato, sempre per Nixon e poi, dopo lo scandalo Watergate e le dimissioni del Presidente nel 1974, di Gerald Ford. Sono anni turbolenti, in cui la Guerra Fredda tocca il suo picco di tensione e bastava un nulla, un filo smosso, una piccola turbolenza, per far crollare la logica bipolare e gli equilibri di potenze che si erano creati. Kissinger, quindi, è l’uomo che quel bipolarismo doveva tenerlo in piedi, come Atlante che sorregge il mondo sulle spalle. Quello che però non ha visto è lo sciame sismico sotto i suoi piedi, quello a cui la sua politica estera non era pronta ad affrontare e che è giusto raccontare con un po’ di pragmatismo, nel vedere il personaggio storico così com’è e non come lo si vuole dipingere.
Il pensiero di Kissinger aderiva alla scuola ‘realista’, tra i cui esponenti troviamo il nostrano Machiavelli e il contemporaneo di Kissinger, Hans Morgenthau. Mantenere un bilancio del potere tra le superpotenze, perseguire “l’interesse nazionale” sopra ogni cosa e agire con cinico e netto pragmatismo, scevro da considerazioni ideologiche o morali. Interpellato da Jefferson, Mario Del Pero, Professore di storia internazionale alla facoltà di Sciences Politiques di Parigi, ha affermato che Kissinger era un “pensatore della crisi", offriva una retorica, un discorso che funziona in tempi di crisi negli Stati Uniti. Fare politica estera come tutti gli altri, mossi dall'interesse nazionale, abbandonando illusioni, meliorismi liberal, diritti umani.”
Questo tipo di retorica trovò ampio spazio nell’amministrazione di Nixon, che lo accolse nel 1969 in veste di Consigliere per la Sicurezza Nazionale. Kissinger influenzò la gestione del conflitto in Vietnam, spingendo da un lato il progressivo ritiro delle truppe americane, e dall’altro promuovendo l’intensificazione delle dure campagne di bombardamento segrete contro il ‘Sentiero di Ho Chi Minh’, la fitta rete logistica dei vietcong in Cambogia e Laos, bypassando i controlli del Congresso americano. I suoi incontri furtivi con le delegazioni diplomatiche nordvietnamite furono strumentali nella formulazione degli accordi di Parigi del 1973. Una ‘pace con onore’ che terminava l’impegno americano nel Paese asiatico senza tuttavia portare a una risoluzione del conflitto tra nord e sud: i famosi ‘Nixon Tapes’, emersi durante lo scandalo Watergate, rivelarono che Kissinger si aspettava una rapida sconfitta del Vietnam del Sud dopo il ritiro americano ultimato nel 1975.
La possibilità di vincere la guerra in Vietnam era stata, nell’ottica di Kissinger, una vana illusione delle amministrazioni precedenti, determinata dalla tipica fede americana nell’universalità dei valori democratici. Diverso fu il suo atteggiamento riguardo alla presidenza di Salvador Allende, nel 1970 eletto Presidente del Cile come candidato di una larga alleanza di sinistra che includeva anche i comunisti. “Non vedo perché dovremmo permettere ad una nazione di diventare comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo” fu la sua risposta quando gli fu rinfacciato il suo ruolo nella decisione dell’amministrazione Nixon di appoggiare il colpo di Stato contro Allende e il successivo sostegno alla dittatura di Pinochet in Cile a partire dal 1973. Kissinger, tuttavia, non riteneva il comunismo una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti, e aveva promosso politiche di distensione con l’Unione Sovietica nell’ottica di una politica di coesistenza e ‘bilancio’ tra le due superpotenze.
Rilevanti furono poi le sue aperture alla Cina maoista, prima tramite contatti segreti tra le ambasciate statunitensi e cinesi in Polonia, poi con l’espediente della ping-pong diplomacy, un successo coronato dalla visita ufficiale di Nixon a Pechino nel 1972. Grazie a questi contatti, continuati poi in veste di Segretario di Stato durante l’amministrazione Ford, Kissinger costruì attorno a sé il mitico ruolo di fautore del riavvicinamento sino-americano, processo che fu tuttavia concretizzato soltanto sul finire della decade con l’ascesa del leader riformista cinese Deng Xiaoping ed il prudente lavoro di normalizzazione diplomatica portato avanti da Zbigniew Brzezinski per conto di Jimmy Carter. Brzezinski, politologo di origini polacche, era un amico ed estimatore di Kissinger, ma il suo approccio differiva nel tentativo di coniugare, con fortune alterne, la sua visione realista con l’enfasi dell’amministrazione Carter sui diritti umani e sul mantenimento di uno standard etico nelle relazioni internazionali.
L’etica, per Kissinger, aveva poco spazio nella politica internazionale. Nonostante le persecuzioni subite dai nazisti nell’infanzia per via della sua etnia ebraica, Kissinger consigliò a Nixon di ignorare le richieste d’aiuto degli ebrei sovietici, forzati a rimanere in URSS e vessati dalle politiche discriminatorie di Leonid Brezhnev, in ottica di non incrinare la distensione dei rapporti iniziata con il trattato di disarmo nucleare SALT 1 e con gli accordi di Parigi. In una delle Nixon Tapes dichiarò: “E anche se in Unione Sovietica mettessero gli ebrei nelle camere a gas, non sarebbe un problema americano. Al massimo, un problema umanitario.”
L’iperrealismo cinico di Kissinger e la sua volontà di far perdurare l'equilibrio bipolare tra USA ed URSS, ricorda Del Pero, lo resero “sgradito ai neoconservatori”: la presidenza Reagan non gli riservò un posto nel National Security Council, preferendogli invece Jeanne Kirkpatrick, sostenitrice di una politica di contrasto aggressivo alle influenze sovietiche nel mondo e di una maggiore proiezione militare statunitense: per Kirkpatrick, la guerra fredda non era un equilibrio precoce da mantenere in piedi, ma un conflitto da vincere.
Dal canto suo, Kissinger seppe presto riciclarsi nel settore delle consulenze private, fondando la Kissinger Associates a New York nel 1982. La sua società di consulenza ha sempre mantenuto il segreto aziendale sulla natura della sua clientela, sfruttando la legislazione statunitense in materia di lobbying. Kissinger vendeva le sue consulenze a importanti corporation americane e straniere, ma sono accertati contatti con diverse entità governative, dal governo della Repubblica Popolare Cinese al Cremlino: Vladimir Putin non ha mai nascosto la sua ammirazione per l’ex-Segretario di Stato che, a sua volta, ha spesso ‘consigliato’ allo stato ucraino di accantonare le proprie rivendicazioni sui territori occupati dalla Russia e ristabilire i rapporti diplomatici e commerciali con Mosca.
Nonostante la sua sostanziale esautorazione da posizioni governative, l’influenza di Kissinger non è mai sparita da Washington: soprattutto da alcuni think tank di ispirazione ‘realista’ che continuano a tesserne le lodi fino agli studi degli accademici John Mearsheimer e Stephen Walt, che ne hanno raccolto l’eredità teorica. Ogni Presidente da Reagan in poi ha comunque reso omaggio a Kissinger e al suo ‘mito vivente’, invitandolo a cene ufficiali e cercando di carpire consigli, come fosse un moderno Oracolo di Delfi. Una tradizione, spesso puramente di facciata, dato da cui si è sottratta soltanto un'amministrazione: quella di Joe Biden.