Molti giornali locali non sono veri giornali
Alcune storie di siti di informazione che lo sembrano, ma in realtà non lo sono davvero
Se vivi in una città media degli Stati Uniti potrebbe esserti capitato di non avere più la possibilità di informarti tramite un giornale locale, elemento necessario alla copertura informativa di una comunità territoriale. Dal 2004, infatti, ben 2400 fogli di interesse locale hanno chiuso i battenti, perché i costi erano troppo alti o semplicemente perché questi vengono acquisiti in blocco da grandi catene, che non hanno interesse a svilupparli. Nel momento in cui una città perde il suo quotidiano, si entra in un contesto di deserto informativo in cui il cittadino non ha più un sistema di inchieste locali atte a controbilanciare il potere politico e, in generale, tenderà a disinformarsi e a votare secondo rigida disciplina di partito anche le elezioni a lui più prossime, come quelle per il sindaco e l’amministrazione comunale, in cui solitamente erano sempre entrati in gioco diversi interessi.
In un contesto desertificato e con sempre maggiore diffidenza verso i media definibili mainstream si innesta un sistema al limite del legale: il “Pink Slime Journalism”. L’espressione prende le mosse da un lavorato di scarti, dal colore di una poltiglia rosa appunto, illegale in Canada e nell’Unione Europea, che viene aggiunto come riempitivo alle carni lavorate. Proprio come questa poltiglia viene usata come additivo nella carne, un giornale di questo tipo inserisce silenziosamente visioni partitiche all’interno di un contesto di news locale, senza dare al lettore una chiara idea delle posizioni editoriali del foglio in questione e mascherando vere e proprie opinioni come fatti conclamati. Questo nascondere surrettiziamente opinioni all’interno di un nucleo più ampio è l’opposto della rivoluzione giornalistica di fine Ottocento, lo Yellow Journalism, dove invece lo schema, secondo la formula If it bleeds, it leads, era quello di urlare il più possibile la notizia al fine di vendere più copie possibili.
Una delle figure principali del Pink Slime è l’imprenditore Brian Timpone, oggi cinquantenne, che nel 2006 aveva fondato un’azienda, Journatic (crasi tra Journalism e Automatic), outlet conosciuto per una generazione automatizzata tramite l’analisi dati di storie ultralocali a basso budget, i cui servizi erano stati comprati da media di alto profilo come il “Chicago Tribune”. Al fianco di questi generatori vi erano giornalisti freelance scarsamente pagati che producevano notizie locali, come ha raccontato Ryan Zickgraf sul Washington Post. Il giornalista ha rivelato di scrivere articoli per alcune sezioni dello “Houston Chronicle” nonostante risiedesse a Chicago, ma soprattutto che molti degli articoli di Journatic scritti da esseri umani erano prodotti in serie da persone residenti nelle Filippine a cui venivano americanizzati i nomi: da Gisele Bautista a Jenny Cox, per esempio.
Lo scandalo seguito a queste rivelazioni fatte da Zickgraf nel podcast “This American Life” hanno portato alla chiusura di Journatic che ha subito un rebranding nel 2013 sotto il nome di Locality Labs. Con questo progetto Timpone e i suoi soci costruirono un network di siti molto simili tra loro, in cui il grosso degli articoli è un aggregatore automatizzato di dati, generatore di informazioni come i prezzi del real estate o i posti dove la benzina costa meno; a fianco a questi appaiono ogni tanto degli articoli più lunghi, scritti e lavorati da veri freelance, sempre vicini alla galassia repubblicana. Questi siti, oggi presenti in tutti e 50 gli Stati con più di 1300 iterazioni, e con nomi piuttosto basici come Des Moines Sun, Ann Arbor Times ed Empire State Today, si inseriscono nel vuoto dato dalla continua chiusura di giornali locali, presentandosi falsamente come tali quando in realtà il grosso delle storie è generato da compagnie di pubbliche relazioni corporate al fine di promuovere il candidato repubblicano del collegio; non è un caso, infatti, che l’attività principale di questi “prodotti giornalistici” avvenga durante i cicli elettorali.
Nessuno di questi articoli ha ambizioni di alto giornalismo, è un puro sistema quantitativo: si inseriscono decine e decine di contenuti borderline e qualcuno di questi entrerà nel ciclo delle condivisioni social. Ad esempio, nel 2021, durante la campagna a governatore della Virginia tra il democratico Terry McAuliffe e il repubblicano Glenn Youngkin, in cui l’educazione e il sistema scolastico sono stati punti di dibattito centrali, la galassia di siti riferibile a Timpone ha pubblicato ben 4657 articoli legati all’utilizzo della Critical Race Theory nelle scuole e qualcuno di questi è diventato virale. Detto ciò, non abbiamo studi scientifici a supporto del fatto che questa mole abbia poi contribuito a modificare l’opinione degli indecisi, ma rimane una supposizione interessante, anche perché è proprio il risultato auspicato dalle public relations Repubblicane.
Altro punto di fondo è che il posizionamento di queste operazioni editoriali non è menzionato. Si utilizza l’idea di molti cittadini, statisticamente dimostrata, della bontà superiore del giornalismo locale rispetto a quello nazionale per inserire surrettiziamente talking points del Partito Repubblicano, come la critica alle tasse eccessive e al troppo welfare, o l’attacco a esponenti politici legati al Partito democratico, come il governatore dell’Illinois J.B. Pritzker, che si è scontrato con questi siti. La portavoce della campagna del governatore Pritzker, Natalie Edelstein, ha detto a NPR che questi prodotti non sono definibili informazioni, ma semplicemente propaganda travestita da giornale in modo da confondere più facilmente le persone. Non dobbiamo confondere questi siti con prodotti editoriali politicizzati; come ha detto alla Columbia Journalism Review Penny Abernathy, professoressa di giornalismo all’Università di Northwestern, la differenza con le redazioni politicizzate è il fatto che queste ultime sono vere e proprie redazioni, con notizie commentate da giornalisti di professione e di alto livello, con opinioni spesso che rivelano bias e un mix non spesso subito intuibile tra professione e notizia, ma comunque prodotti giornalistici in tutto e per tutto. Il problema di queste operazioni pink slime non è l’essere conservatori, ma autodefinirsi come redazioni.
Questo sistema negli ultimi anni si è allargato fino a raggiungere anche le comunità di minoranza; uno dei media entrati nella galassia sopracitata è il “Dallas Express”, giornale afroamericano, quindi nato per veicolare le opinioni e le notizie della comunità nera della città, fondato nel 1892 e molto attivo nella denuncia delle condizioni dei neri nella società, con analisi del fenomeno dei linciaggi e della segregazione. Questo giornale, come la maggior parte di questi prodotti, chiuse nel 1970, nel periodo in cui la comunità afroamericana iniziava a essere rappresentata nei media nazionali bianchi, che fino allo scoppio delle proteste per i diritti civili degli anni ’60 tendeva a escluderla. Come rivela Steve Monacelli in un articolo sul “Texas Observer” la pubblicazione online è ricominciata nel 2021, con l’ingresso del nome “Dallas Express” nella galassia di Timpone; l’homepage fa riferimento ad avvenimenti importanti della comunità nera come il Black History Month e l’account Twitter parla di una storia che prosegue da fine Ottocento. La realtà è che ci troviamo di fronte all’ennesima operazione come quelle sopracitate: un outlet di propaganda conservatrice mascherato da informazione locale non-partisan.
Un ex metro editor del “Tribune”, Mark Jacob, ha detto alla Columbia Journalism Review che sta iniziando a smettere di credere al concetto di obiettività giornalistica dato che il semplice atto di assegnare un pezzo a un reporter piuttosto che a un altro nasconde un giudizio valoriale. Il punto è che il giornalismo può essere di parte, come lo è ogni persona, ma non deve dimenticare di attaccare i propri valori a dei fatti.
Si tratta di una riflessione importante in un Paese come gli Stati Uniti, che ha sempre cercato di veicolare un modello giornalistico che dividesse plasticamente i fatti dalle opinioni, in una concezione positivistica del fatto come elemento di verità, in cui il cronista non doveva aggiungere idee a riguardo. Bisogna quindi, in chiusura, comprendere dove si generano questi deserti informativi e cercare di rivitalizzare le proposte editoriali reali delle comunità; dove questo non succede i vuoti vengono riempiti da operazioni come quelle di Locality Labs, non illegali ma lesive per la dieta mediatica del cittadino.