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La lotta al climate change tra apocalittici e integrati
Da un lato il “doomism”, l’idea che ormai sia troppo tardi per fare qualcosa, dall’altro un tecno-positivismo credulone. La verità sta nel mezzo.
Che cosa serve per risolvere il problema dei cambiamenti climatici? Innanzitutto, riconoscerne le cause. Sembra banale, e sono ormai più di 150 anni che ne siamo a conoscenza, eppure non lo è: nella destra americana (ma non solo) e nei vari think-tank di ispirazione libertaria i “contrari” continuano a non mancare, ancora capaci di negare l’evidenza davanti ai loro occhi.
Tuttavia riconoscere le cause non basta, e allo scetticismo antiscientifico si sono, negli ultimi anni, affiancati metodi delatori originali. Da un lato il “doomism”, l’idea che ormai sia troppo tardi per fare qualcosa, che tanto valga estinguersi, lasciare ogni speranza e smetterla di fare figli sparendo in una nuvola di edonismo. Dall’altro un tecno-positivismo credulone, che si fida della scienza fino al punto da affidare ogni speranza futura a una rivoluzione tecnologico-magica che ci tolga le castagne dal fuoco: l’importante è non doversi scomodare ora.
Le ragioni per cui in molti credono all’uno o all’altro sono da rintracciare nella complessità non tanto del problema, quanto delle sue soluzioni. Al plurale, perché di soluzione non ce n’è una sola. Risolvere il problema del cambiamento climatico richiederà tutto questo secolo e per molto tempo non potremmo dichiararci vincitori assoluti. Ogni piccola soluzione che aiuta e aiuterà a ridurre e azzerare la quantità di emissioni gas serra e ridurre la temperatura globale ha la capacità di diminuire i rischi verso cui stiamo andando incontro, e prima saranno messe in atto, meglio sarà.
Al contrario di quello che pensa l’attuale “Ministro della transizione ecologica” nostrano, che la transizione vuole farla, sì, ma con calma e senza fretta. La soglia definita dagli Accordi di Parigi di 1,5 gradi sopra il livello preindustriale sarà molto probabilmente passata da qualche parte durante questo secolo. Anche la seconda, quella di 2 gradi, non si sente molto bene; d’altro canto, le più nere prospettive di inizio secolo (oltre 5 gradi) sembrano più lontane dato l’impegno – e il moderato successo – di molte nazioni. Tra l’uno e l’altro c’è, letteralmente, un oceano di possibilità. Quando e se passeremo la soglia dei 2 gradi, ci sarà sempre quella di 2,1, 2,2 e così via. E per ogni decimo di grado, una maggiore (o minore) quantità di rischio, tra inondazioni, ondate di calore e altri eventi estremi.
Data questa (lunga) premessa, sembra quasi ovvio che tutte le persone di buona volontà seriamente preoccupate per le conseguenze del cambiamento climatico dovrebbero facilmente accordarsi su di un fatto semplice: se molte sono le soluzioni necessarie, di nessuna di queste possiamo fare a meno. Così non è.
Anche nel mondo ambientalista l’ideologia non manca, e sono numerose le “soluzioni” che continuano a trovare la strada sbarrata dal diniego proprio di quelli che più di tutti dovrebbero celebrarle. L’esempio più noto, chiaramente, è quello dell’energia nucleare, spauracchio non solo in Italia. Che si sia in Germania, negli Stati Uniti o in Giappone, quando le centrali nucleari chiudono vengono sostituite dai combustibili fossili, con conseguenti ricadute sia sulla qualità dell’aria che, ovviamente, sul clima.
Il massimo che possiamo sperare è che, fra magari dieci o quindici anni, anche quell’energia sarà prodotta da fonti rinnovabili e conservata in batterie che per ora, purtroppo non abbiamo. Dei danni attuali che le chiusure anticipate producono, pochi ne parlano. Oltre a questo esempio, ben noto a molti, ce ne sono di nuovi che ricadono entrambi nel termine-ombrello di ingegneria climatica, che una parte dell’ambientalismo, per ora soprattutto americano, ha deciso di trasformare nel nuovo spauracchio. Termine che indica la volontà di modificare, consapevolmente stavolta, il clima del pianeta, preferibilmente per tenerlo in una condizione a noi, e agli ecosistemi che ci stanno intorno, favorevole.
Sotto questo termine ricadono varie cose: coltivazioni modificate geneticamente per ridurre le emissioni e aumentare la produttività, la rimozione diretta di CO2 dall’atmosfera o tecniche per ora in fase di studio davvero embrionale per, in caso di emergenza, raffreddare temporaneamente il pianeta. Se da una parte affidarsi solo a queste promesse non ha senso, proprio perché sono fatte solo per lavorare di concerto con una forte riduzione delle emissioni da combustibili fossili, dall’altra ha altrettanto poco senso fare del loro studio anatema, come molti gruppi ambientalisti americani stanno facendo.
Da dove viene tale ritrosia a queste proposte soluzioni? La risposta più comune è che non siano abbastanza trasformative, cioè che “mascherino” in modo troppo facile la necessità della transizione energetica, estendendo la vita dell’industria estrattiva e impedendo il superamento del capitalismo. Lasciamo per un attimo da parte la discussione se sia o meno il capitalismo la causa primaria del cambiamento climatico: se ne può discutere. Che lo sia o meno, il paradosso che si pone di fronte all’umanità è il seguente: la maggior parte delle emissioni che, purtroppo, rimangono per secoli nell’atmosfera sono state già prodotte, e da una generazione e da una parte del mondo (quello occidentale) che per ragioni temporali e spaziali sono quelli che, del cambiamento climatico, sentiranno meno gli effetti, mentre i paesi più poveri, e quelli nella fascia tropicale, sono quelli che già ne risentono e ne risentiranno sempre più.
Ridurre le emissioni sarà fondamentale per evitare rischi futuri, ma come alleviare quelli correnti? Un rapido trasferimento tecnologico sarà assolutamente necessario per permettere anche ad altri di produrre energia pulita, anche se il caso vaccini non lascia ben sperare sulla buona volontà dei paesi occidentali, ma è innegabile che ci sarà bisogno anche di interventi riparativi: rimuovere fisicamente le emissioni già presenti e, se ritenuto necessario, dare al pianeta un temporaneo antipiretico.
I movimenti ambientalisti sbagliano quindi ad opporsi alla ricerca di questi possibili metodi alternativi, lasciando trasparire un’idea del cambiamento climatico e dei suoi effetti come di una punizione da parte di un’antropomorfizzata Natura (matrigna) pronta a fustigare: ma come detto sopra, sarebbe una punizione che colpisce proprio i meno colpevoli.
Ovviamente c’è il rischio che, come per altro, vengano usati dai pochi per prevaricare sui molti, ma evitare che ciò accada richiede costante vigilanza più che un rifiuto sprezzante ad approcciarsi alla discussione.
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