Lo smartphone “Made in Usa” che non esiste: la truffa dell’autarchia tech
Annunciato come simbolo del tech sovranista, il T1 Phone di Trump doveva essere fabbricato in America. Tra ritardi, misteri e componenti cinesi, resta solo un grande bluff
Donald Trump è sempre stato un piazzista. Negli anni non ha solo venduto immobili, ma si è gettato in qualsiasi tipo di business: università, casinò, squadre di football, bistecche, liquori, linee aeree, profumi, scarpe, orologi, bibbie, giochi da tavolo. Ora, nonostante il ritorno a un ruolo istituzionale, Trump sembra voler mantenere il trend, anzi alzando ulteriormente la posta.
Che la cosa arrivi da un buon vecchio palazzinaro newyorkese non dovrebbe sorprendere, ma negli ultimi mesi il fenomeno ha assunto un peso bizzarro, fin dal giorno zero del suo ritorno alla Casa Bianca. È il caso della sua personale meme coin $Trump, lanciata poco prima del suo insediamento il 17 gennaio insieme a quella della moglie Melania; ma soprattutto è il caso del servizio di telefonia Trump Mobile e, soprattutto, del telefono T1 Phone.
Un cellulare tanto pacchiano quanto misterioso; talmente misterioso, che più passa il tempo meno se ne conoscono i dettagli tecnici, soprattutto quelli relativi alla disponibilità. Ma andiamo con ordine. Il 16 giugno, alla Trump Tower, i due figli maggiori del tycoon Donald Jr. ed Eric annunciano la nascita della società Trump Mobile: un’entità nata su licenza della Trump Organization che fornisce un servizio di telefonia e un cellulare. Il primo, come operatore mobile virtuale che offre un piano all inclusive (The 47 plan) da 47 dollari e 45 centesimi (numero non casuale, che richiama il fatto che The Donald è stato il 45esimo Presidente ed è ora il 47esimo); il secondo è il T1.
Alla presentazione, l’attenzione si è concentrata sullo smartphone trumpiano: una tavoletta dorata dal valore di 499 dollari rigorosamente made in America. Sul sito (e alla presentazione) i dettagli non sono moltissimi: display da 6,78 pollici, diverse fotocamere con la principale da 50 megapixel, 12 gigabyte di Ram e una memoria interna di 256 gigabyte. Sempre il 16 giugno, i figli di Trump annunciano che il cellulare si può preordinare per 100 dollari e che le prime consegne sono previste per settembre. Peccato che, dopo circa un mese, sia spuntata un’altra verità.
Fin dalla presentazione, le riviste americane del settore come The Verge hanno avanzato dubbi sulla possibilità che uno smartphone possa essere realizzato negli Stati Uniti mantenendo un costo di 499 dollari. Giusto per fare un esempio, secondo una stima della Wedbush Securities, supponendo di avere una supply chain rivisitata e di avere degli impianti in Stati come West Virginia o New Jersey, costruire un iPhone negli Stati Uniti potrebbe arrivare a costare 3.500 dollari l’uno.
Poco meno di due settimane dopo il lancio, i dubbi trovano conferma. Intanto saltano le consegne a settembre, prorogate a un vago “nel corso dell’anno”, con la dicitura “in arrivo” tolta dal sito. Saltato anche il display, ridotto a 6,25 pollici, così come la Ram, non più da 12 gigabyte. Ma a saltare è anche la dicitura made in Usa, sostituita da una più furba dicitura secondo cui il telefono “prende vita negli Usa, con valori americani in mente e con mani americane dietro a ogni dispositivo”.
La retromarcia non fotografa solo l’impossibilità di una promessa assurda, ma soprattutto i contorni di quello che – più che un flop – può essere definito truffa di Stato. Come ha raccontato New Republic, diversi giornalisti hanno provato l’esperienza di Trump Mobile e in mezzo c’è stato di tutto. Chi ha tentato di pagare i 100 dollari del preorder e si è visto un addebito diverso; chi ha fatto l’abbonamento al piano 47 ma non può usarlo; chi si è sentito rispondere dal call center solo vaghi “non lo so”.
Dalla compagnia smentiscono e confermano che tutto sarà prodotto in America, ma non è chiaro dove, come e soprattutto quando. Il problema intorno al T1 è strutturale. Al di là del semplice problema del costo, al momento non è possibile produrre negli Usa. La catena del valore andrebbe rifatta di sana pianta, mancherebbero i semilavorati, mancherebbero gli impianti e i macchinari per l’assemblaggio, ma soprattutto mancherebbero gli operai.
Il mercato degli smartphone a livello globale è tutto nelle mani dell’Asia. Pur con travasi e rimescolamenti, oltre il 90 per cento della produzione mondiale è a Oriente, con la Cina che fa la parte del leone con il 70-80 per cento del totale. Nessuno crede che il T1 possa nascere in America; anzi, i più maligni sono convinti che alla fine il T1 verrà assemblato in Cina o, peggio, sarà un rebranding di un telefono già esistente.
Per Todd Weaver, CEO di Purism, il rendering del T1 di Trump ricorda il Revvl 7 Pro 5G, uno smartphone cinese prodotto dalla Wingtech che si può trovare su Amazon per circa 170 dollari. Weaver parla con cognizione di causa perché è l’unico che può fregiarsi del titolo di produzione quasi interamente negli Stati Uniti. La sua società, che produce software e tablet, produce anche il Liberty Phone, un telefono assemblato negli Usa e che costa 1.999 dollari con caratteristiche che appaiono molto modeste rispetto ai made in China: 4 gigabyte di Ram e 128 di memoria. Weaver stesso fa sapere che alcuni componenti del Liberty Phone arrivano dall’estero: la scocca e il modulo per la Sim sono ancora cinesi, mentre il modem per il wi-fi arriva dall’India. L’esperienza di Weaver è singolare, dato che il suo è stato un percorso al contrario rispetto a quello delle altre aziende, di rientro dalla Cina.
I limiti sono enormi: manca tantissimo know-how per produrre in America, mancano risorse e ingegneri e costruire un’economia di scala sugli smartphone è quasi impossibile. E infatti, proprio in virtù della sua esperienza, Weaver parla chiaro: “A meno che la famiglia Trump non abbia segretamente costruito un’operazione (di costruzione) sicura nel corso di anni di lavoro senza che nessuno se ne accorgesse, semplicemente non sarà possibile mantenere le promesse”. Ma in fondo, dimostra Trump, le promesse contano fino a un certo punto: quel che conta davvero è cavalcare l’onda dell’autarchia di facciata, passando da una truffa visionaria all’altra.