L'inesperto Lincoln e un Paese in frantumi
Nel 1860, complice l'indebolimento dei Democratici, un nuovo partito voleva contrastare «il lavoro rubato» dagli schiavisti. Vinse le elezioni, ma avrebbe dovuto affrontare una guerra civile.
Un Paese molto diviso e frammentato che si avvicina alle elezioni presidenziali con il timore che possa scoppiare una guerra civile. Questa è l’America che si affacciava alle elezioni presidenziali nel 1860. Certo a quel punto forse un Paese vero e proprio ancora non era nato. C’era una questione su cui i Padri Fondatori avevano perso la loro personale scommessa: la schiavitù non era scomparsa con l’industrializzazione, anzi, si era rafforzata. Il sistema di produzione schiavista era diventato un ingranaggio fondamentale nell’industria cotoniera britannica e i politici del Sud ne diventarono sempre più consapevoli, tanto da proclamare con tracotanza che «il cotone era re». Nel 1857 la sentenza della Corte Suprema Dred Scott v. Sanford, che negava la possibilità per gli afroamericani liberi di diventare cittadini degli Stati Uniti, fece infiammare gli animi. La preoccupazione per lo slave power era esplosa: secondo i suoi teorici, si trattava di un potere subdolo, sotto il controllo dei grandi latifondisti terrieri del Sud che permeava ogni organo del governo federale e deteneva la golden share del partito di maggioranza relativa, i Democratici, sempre più incerti sul da farsi.
Per questo era nato nel 1854 un partito che coalizzava intorno a sé un gruppo di riformatori radicali insieme ad alcuni uomini d’affari del Nord che premevano sviluppare in modo deciso un settore industriale ancora in fase embrionale. A unire due fazioni così diverse, l’ostilità nei confronti del «lavoro rubato» da parte degli schiavisti. Concorrenza sleale sia nei confronti degli operai sia degli imprenditori. Inizialmente però la piattaforma non era integralmente abolizionista, dato che la maggior parte degli aderenti a questa corrente di pensiero erano persone molto religiose, ma poco influenti. Qualcuno però, come il Senatore Repubblicano William Seward di New York, dopo Dred Scott, parlava di una «legge più alta della Costituzione», in riferimento ai comandamenti divini. Senz’alcun dubbio però, i Repubblicani volevano evitare che il progetto degli schiavisti andasse in porto, ovverosia la protezione federale del diritto a possedere schiavi. Molti di questi pensavano che il partito Democratico del debole Presidente James Buchanan fosse ancora il veicolo adeguato per portare avanti loro istanze. Qualcosa però si spezza: le vicende del “bleeding Kansas”, l’allora territorio conteso tra schiavisti e nordisti anche in modo violento. La figura più carismatica dei Democratici, il Senatore dell’Illinois Stephen Douglas, pensa che le richieste del Sud siano eccessive. Per questo il Partito Democratico si scinde in due tronconi nel 1860, alla vigilia del voto: un pezzo segue Douglas, l’altro, minoritario, ma concentrato negli stati del Sud, sceglie il giovane Vicepresidente John Breckinridge come suo portabandiera. E i Repubblicani? Dopo un lungo dibattito alla convention tra pesi massimi, tra cui il già citato Seward, visto come il favorito della vigilia, la scelta cade su Lincoln per due ragioni: la sua abilità oratoria e per le sue idee moderate, che già aveva esposto in un discorso alla Cooper Union di New York, mostrando punto per punto come i Repubblicani non fossero i fanatici di cui dicevano i sudisti. Tra i suoi punti deboli, la scarsa esperienza politica, che si riassumeva in otto anni da deputato statale in Illinois e altri due a livello federale. Però era comunque un nativo del Kentucky, uno stato schiavista e questo serviva per rassicurare eventuali dubbiosi su una sua presidenza e rafforzare quindi la possibilità che i Repubblicani riuscissero a sconfiggere i Democratici in tutti gli stati liberi. C’era anche un’altra candidatura alle presidenza, quella del partito dell’Unione Costituzionale, patrocinata da alcuni possidenti schiavisti contrari alla potenziale secessione degli stati del Sud, minaccia che aleggiava da mesi in caso di vittoria di Lincoln, il quale, comunque, si era ben guardato dall’inserire elementi abolizionisti nella piattaforma programmatica. Un programma apparentemente debole, che però puntava tutto sul timore di parte della classe dirigente sudista, che temeva, con ragione, che il Sud non avrebbe avuto i mezzi per reggere un conflitto contro una nascente potenza industriale com’erano gli stati del Nord. Bastava però il concetto di limitazione dell’espansione della schiavitù nei nuovi territori a Ovest per far pensare alla leadership sudista all’eventuale distacco dall’ex Madrepatria, sull’esempio, dicevano, di quanto fatto poco meno di cent’anni prima da figure come George Washington. Il quale infatti possedeva schiavi.
Lincoln vince il 6 novembre di quell’anno con il solo 39,8% dei voti, mentre i Democratici uniti avrebbero raccolto il 47% circa, che però venne diviso dal 29,5% raccolto da Douglas e dal 18% raccolto dal sudista Breckinridge. Ancora prima che Lincoln venisse inaugurato, il South Carolina, sede delle maggiori spinte abolizioniste, decide di staccarsi il 20 dicembre 1860. Qualche mese dopo verrà seguita da altri dieci stati. A nulla era valso l’avvertimento di alcuni esponenti Democratici come Alexander Stephens che dissero che «l’Unione era una barca fallata che ancora si poteva riparare». In soldoni: Lincoln poteva essere combattuto in sede congressuale, a maggior ragione dato che i Democratici uniti avrebbero raccolto la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti. Niente da fare. La classe dirigente del Sud aveva fatto la sua scelta azzardata. E i Repubblicani sarebbero diventati per anni il nuovo partito maggioritario nel Paese, che meglio degli indeboliti democratici aveva colto le spinte di rinnovamento provenienti dagli stati più intellettualmente vivaci.