Le radici missionarie del nuovo Papa: intervista allo storico Claudio Ferlan
Un retroterra inusuale per il nuovo Pontefice che può portare a svolte inattese
Nei secoli passati, per arrivare al soglio di Pietro bisognava fare parte di una nobile famiglia. Italiana, dopo il 1523. Oppure avere un background diplomatico o alla guida di una grande diocesi. Europea, o preferibilmente italiana. Difficilmente chi faceva il missionario poteva ambire ai vertici della Chiesa cattolica. Per lo storico Claudio Ferlan, ricercatore presso la Fondazione Bruno Kessler di Trento e autore del libro Storia delle Missioni Cristiane edito da Mulino, questo rappresenta una forte novità. Gli abbiamo quindi chiesto delucidazioni su che pontificato sarà quello di Leone XIV.
Professor Ferlan, quanto conterrà l’esperienza missionaria per capire le prossime mosse del nuovo Papa?
“Al netto di qualche episodio, come ad esempio il viaggio in Cile di un giovane Giovanni Maria Mastai Ferretti, il futuro Papa Pio IX, mai prima d’ora avevamo avuto un Papa che ha svolto pressoché tutta la sua carriera da missionario. Questo indica che Leone di sicuro vuole proseguire sulla strada della decentralizzazione avviata da Francesco: lo indica molto chiaramente il fatto significativo che il primo saluto dopo l’elezione sia stato in spagnolo e non in inglese, che è la sua lingua natìa”.
Formalmente si tratta del primo papa nordamericano, ma il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York, ha detto in un’intervista che non sapeva chi fosse. Quanto è davvero “statunitense”?
“Questa domanda richiede una risposta complessa: il fattore nazionale in passato contava molto, e nell’età moderna i partiti nazionali spesso spostavano i destini del conclave. Cosa che oggi però conta relativamente, dato che a prevalere tra i membri del collegio cardinalizio sono valutazioni d’altro tipo come l’orientamento ideologico, il carisma e le qualità pastorali e diplomatiche. Quindi, attualmente, la scelta ricade su chi viene considerato il migliore”.
Dei predecessori, già prima della loro elezione, si conosceva molto il pensiero: Ratzinger aveva scritto decine tra libri e articoli, lo stesso si può dire di Wojtyla e Bergoglio. Di Prevost, invece, si sa molto poco: non è disponibile neppure una raccolta di omelie. Anche questo silenzio mediatico ha contato nella sua elezione?
“La risposta sintetica è sì; quella più articolata è che nei giorni delle congregazioni saranno emersi come più convincenti elementi come il suo pensiero o il modo di leggere il mondo contemporaneo e temi come il digitale e l’intelligenza artificiale. Il fatto che non siano disponibili sue omelie significa che Leone XIV, quindi, può avere un punto di vista dinamico ancora non registrato in documenti scritti”.
Un ultima domanda riguarda la chiesa statunitense che, come emerge dal recente libro di Massimo Faggioli Da Dio a Trump, è per molti aspetti trumpizzata e nazionalista, lontana dagli insegnamenti di Francesco e anche di Benedetto XVI. Leone XIV può fare qualcosa?
“Anche alcuni cambiamenti delle gerarchie effettuate da papa Bergoglio hanno intaccato poco l’orientamento generale dei fedeli. Non dobbiamo dimenticare che cambiamenti troppo bruschi negli Stati Uniti possono portare a una fuga dei fedeli verso altre confessioni. Ricordiamoci, però, che la Chiesa non è un monolite ma è ricca di contraddizioni interne: in questo caso, però, le possibilità di agire del Papa sono molto limitate. Forse potrebbe anche non riuscire a far nulla”.