Le donne dell’impero
La questione femminile bianca e l’impero americano nell’800, tra privilegio e oppressione
L’intera storia degli Stati Uniti può essere letta come un costante processo di espansione imperiale, a partire dall’indipendenza del 1776. In un primo momento con l’acquisto della Louisiana nel 1803 e con la dottrina del “Destino manifesto”, che rivendicava il diritto divino all’espansione continentale, portando allo sterminio delle popolazioni native. Successivamente con la colonizzazione oltremare e l’intervento nelle due guerre mondiali, che segnarono l’ascesa degli Stati Uniti a superpotenza imperialista globale. Infine, nel XX secolo, con la crescita dell’impero informale tramite alleanze militari, basi all’estero, operazioni segrete, rovesciamento di governi straniere e proiezione globale del potere politico, economico e culturale. Le dinamiche imperiali sono dunque parte costitutiva dell’esperienza americana e ne hanno plasmato non soltanto la storia, ma anche la sua stessa natura sia nei rapporti interni che verso il resto del mondo.
L’immaginario collettivo ha spesso dipinto l’impero americano come un’impresa prettamente maschile, portata avanti da pionieri come Davy Crockett e Kit Carson, o Presidenti dal viso inflessibile e severo come Andrew Jackson e Theodore Roosevelt. Le gesta di questi e altri personaggi, immortalate in racconti epici e ritratti solenni appesi alla Casa Bianca, hanno dominato la narrazione della frontiera americana, dipinta come uno spazio selvaggio e pericoloso, dove soltanto gli uomini più coraggiosi e determinati si sarebbero potuti affermare e avrebbero potuto realizzare così il sogno americano. Anche la politica espansionistica è stata presentata soprattutto come una questione di potere presidenziale, dalla Dottrina Monroe in poi, e di visioni strategiche maschili, dal Manifest Destiny al Corollario Roosevelt. Persino nell’iconografia e nella statuaria pubblica, l’impero americano appare soprattutto come un’epopea al maschile: si pensi alle imponenti statue equestri dedicate ai generali, condottieri virili e invincibili. L’impresa imperialista è stata spesso rappresentata anche dalla storiografia attraverso l’utilizzo di una prospettiva prettamente maschile che enfatizzava il ruolo di uomini esploratori, militari, politici e imprenditori nelle azioni di espansione territoriale, conquista e sfruttamento economico.
Eppure, dietro a questa narrazione distorta, vi è una storia ben più complessa e sfaccettata, che vede le donne giocare un ruolo chiave nel processo di espansione e consolidamento della potenza imperiale americana. Pur essendo escluse dalle posizioni formali di potere, esse svolsero funzioni essenziali come mogli di coloni, missionarie, insegnanti, infermiere, scrittrici e attiviste sia nelle terre conquistate che nella madrepatria, fornendo un apporto indispensabile seppur spesso sottovalutato e trascurato.
In particolare, un caso studio interessante è rappresentato dalle donne WASP (White Anglo-Saxon Protestant), appartenenti all’élite bianca protestante di origini anglosassoni che dominava gli Stati Uniti nel periodo compreso fra l’Ottocento e la prima metà del Novecento. Discendenti dai coloni britannici e dai Padri Pellegrini giunti in Nord America a partire dal XVII secolo, erano principalmente di estrazione sociale elevata e provenivano da famiglie benestanti residenti sulle coste orientali e nel New England. Il loro ruolo era quello di mogli e madri devote che gestivano la sfera domestica e familiare, educando i figli secondo rigorosi principi religiosi. Queste donne incarnavano gli ideali femminili vittoriani di domesticità, pietà e purezza morale secondo un “culto della domesticità” e una nozione delle “sfere separate” tra i sessi che sancivano la casa e la famiglia come ambienti di competenza esclusivamente femminile. Al contrario, la sfera pubblica della politica, degli affari e del lavoro rappresentava l’ambito proprio degli uomini. A loro spettavano i ruoli produttivi, la partecipazione attiva alla vita politica del Paese e il potere decisionale, ritenuti inconciliabili con la moralità domestica femminile.
Questa rigida separazione di sfere instaurava una gerarchia di genere che confinava le donne nel privato negando loro piena cittadinanza e diritti civili, economici e politici. Al contempo però elevava la domesticità femminile a fondamento morale della nazione. Come ha sostenuto Amy Kaplan, l’esaltazione della domesticità era indissolubilmente legata al mantenimento e alla promozione dell’impero. I progetti imperiali volti ad annettere nuove terre e sfruttarne le risorse venivano presentati come “missioni civilizzatrici”. In questo contesto le donne bianche rappresentavano l’ideale di purezza morale e virtù domestica che l’impero si proponeva di diffondere. La loro presunta superiorità femminile legittimava agli occhi dell’opinione pubblica la colonizzazione come mezzo per elevare popoli stranieri ritenuti culturalmente arretrati. In sintesi, nell’immaginario imperialista le donne WASP simboleggiavano quei valori domestici che l’impero intendeva esportare ai popoli delle terre non civilizzate.
Nel XIX secolo emerse dunque per le donne bianche un nuovo ruolo centrale all’interno del progetto imperiale: quello di agente morale, forza stabilizzatrice e, al contempo, strumento civilizzatore. La domesticità offrì loro i paradigmi intellettuali per entrare all’interno dei dibattiti più vivaci e controversi della storia imperiale americana e per rivendicare la legittimità di una voce femminile nella sfera pubblica, sostenendo riforme politiche e sociali radicali, come il diritto di voto, l’abolizione della schiavitù, o il diritto dei nativi americani alla vita e alla proprietà delle terre.
Esse svolsero un ruolo chiave nei movimenti di riforma che, nella prima metà dell’Ottocento, contestarono dall’interno l’espansionismo imperialista degli Stati Uniti, denunciandone gli aspetti più controversi e lesivi dei diritti umani. In particolare, il movimento abolizionista vide una massiccia mobilitazione femminile contro la piaga della schiavitù. Donne come Lucretia Mott, Angelina Grimké e Harriet Beecher Stowe guidarono campagne per l’emancipazione degli schiavi, smascherando l’ipocrisia di una nazione che si professava democratica e liberale, ma negava libertà e uguaglianza agli afroamericani. Altre attiviste abolizioniste come Lydia Maria Child si schierarono in difesa dei nativi americani, le cui terre venivano sistematicamente espropriate dall’avanzata di coloni bianchi spinti dalla brama di nuove terre. Attraverso le forme che la domesticità offriva loro, come la letteratura destinata al pubblico femminile e al giovane pubblico, i manuali domestici, ma anche successivamente il giornalismo e i discorsi pubblici giustificati sulla base del ruolo morale delle donne nella sfera pubblica, in quanto custodi dei valori della nazione, queste donne gettarono luce sugli abusi dell’imperialismo americano. In un contesto dominato da forme esplicite di machismo patriarcale, le riformatrici dell’Ottocento infransero i tabù che volevano le donne relegate nel privato, ergendosi a coscienza critica della nazione e ricordandole che i più alti ideali democratici dovevano valere per tutti i popoli, non solo per i maschi bianchi.
Allo stesso tempo, l’impero agì come collettore di opportunità e nuove possibilità perché permise alle donne WASP di diffondere i valori culturali e morali della madrepatria, a loro volta centrali per legittimare e sostenere il dominio coloniale. Le loro prospettive, seppur radicali, erano infatti spesso intrinsecamente permeate di eccezionalismo e razzismo tipici del loro tempo. Un buon esempio di questo è ancora una volta l’abolizionista Lydia Maria Child che, analizzando la peculiare condizione della donna afroamericana schiava, sosteneva l’abolizione anche perché la schiavitù stava impedendo alle donne nere di abbracciare gli stessi ideali di domesticità delle donne WASP e distruggeva l’armonia familiare del padrone bianco. Nonostante il fervente impegno abolizionista, il suo pensiero rimase pervaso dalla convinzione della superiorità dei valori della domesticità femminile bianca.
La storia delle donne bianche protestanti nel contesto dell’imperialismo americano fu dunque molto più sfaccettata di una semplice narrazione di passività e vittimismo e richiede ulteriori approfondimenti per comprenderne appieno le ambiguità. Da un lato, la cultura della domesticità e la dipendenza legale, sociale ed economica dai mariti resero le donne WASP soggette a varie forme di oppressione maschile, come la negazione di pari accesso all’istruzione universitaria, di pieni diritti politici e del libero accesso alle professioni. Dall’altro, però, l’imperialismo americano offrì anche nuovi spazi di emancipazione dove alcune di esse poterono acquisire maggiore visibilità sociale e autorità intellettuale, ad esempio attraverso la partecipazione ad associazioni filantropiche e movimenti abolizionisti al femminile. Tuttavia, l’ascesa socio-politica di queste élite femminili bianche e protestanti rimase segnata da forti contraddizioni e zone d’ombra sul piano razziale. Le stesse donne che lottavano per l’emancipazione, infatti, finirono per perpetrare ideologie razziste che legittimavano la missione civilizzatrice dell’impero americano, rappresentato come baluardo di valori bianchi e protestanti. Si tratta dunque di una vicenda storica complessa, che necessita di ulteriori studi critici per comprendere a pieno le molteplici ambiguità delle donne WASP, sospese tra privilegio e oppressione all’interno della macchina imperiale statunitense.