Le Dixie Chicks, l'Iraq e il Texas: una storia complicata
Il gruppo di sole donne proveniente dal Texas venne rimosso da tutte le radio country per aver osato criticare l'intervento americano contro Saddam Hussein. Il primo caso di cancel culture di destra.
Il 10 marzo del 2003 le Dixie Chicks erano talmente all'apice del successo che si stavano esibendo da questa parte dell'Atlantico: una rarità per delle star della musica country, per le quali solitamente si definisce "mondiale" un tour che includa anche delle date in Canada. Quella sera erano in scena allo Shepherd's Bush Empire, una delle più belle sale da concerti di Londra. Il loro singolo del momento - il sesto n.1 in classifica della loro carriera, e sarebbe stato anche l’ultimo - era la loro versione di un brano dal titolo "Travelin' soldier", la storia di un soldato americano che durante la guerra in Vietnam si innamora di una ragazza del suo Paese e intrattiene con lei un rapporto amoroso epistolare, finché lei una sera non apprende della sua morte al fronte da un annuncio prima della partita di football. L'invasione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti era già stata annunciata, e sarebbe iniziata nove giorni dopo: vista la sfumatura vagamente pacifista della canzone, la cantante Natalie Maines ritenne di presentarla lanciandosi in una insolita dichiarazione politica: "Noi siamo contro questa guerra, e proviamo vergogna per il fatto che il Presidente degli Stati Uniti è un texano".
Nell'ambiente della musica country, in controtendenza rispetto al resto dello showbusiness, le simpatie politiche conservatrici sono sempre state ampiamente dominanti; men che meno ci si sarebbe aspettati un'uscita tanto feroce da un'artista texana, peraltro proveniente nemmeno da una enclave progressista e “fricchettona” come San Antonio o come Austin, ma dalla ultraconservatrice Lubbock, a ovest di Dallas.
Non appena la notizia raggiunse la madrepatria, venne accolta con un'ondata di indignazione e risentimento: quel commento formulato con quel tono, per di più all'estero, e proprio in un momento di nervi scoperti come quello, venne percepito dai fan come anti-patriottico, quasi un tradimento. Numerose emittenti radiofoniche specializzate in musica country - che da sempre rappresentano il canale imprescindibile per il raggiungimento e il mantenimento della grande fama per gli artisti di quel genere - decisero di eliminare di punto in bianco dalla loro programmazione non solo "Travelin' soldier", ma anche le altre canzoni delle Dixie Chicks, dopo che molti ascoltatori si misero a tempestare le radio di telefonate furibonde, talvolta addirittura minacciose. Da superstar quali erano, le tre ragazze si ritrovarono di punto in bianco condannate a un esilio radiofonico repentino quanto efficace. La loro carriera si interruppe, e non avrebbe più ripreso quota del tutto.
È un peccato che delle Dixie Chicks sia rimasta negli annali soprattutto quella vicenda. Facevano una musica strepitosa e sarebbe bello ricordarle per quella, per i capolavori contenuti nel loro esordio "Wide Open Spaces" (1998) e nell'immediatamente successivo "Fly" (1999), rispettivamente 12 e 10 milioni di copie vendute, quando loro erano tre ragazze meno che trentenni, di bell'aspetto sì, ma non così tanto da poter imputare a questo il loro successo. Il tutto senza bisogno di giocare con il crossover nel pop come Shania Twain o Faith Hill, e anzi al contrario ammiccando addirittura alle sonorità bluegrass dalle quali erano partite.
La tentazione di considerare quello delle Dixie Chicks come un caso di cancel culture ante litteram, paradossale perché "di destra", è forte; è pur vero, però, che la dinamica fu in un certo senso antitetica rispetto a quella dei casi di boicottaggio provenienti da quella sinistra che alcuni definiscono come "woke". Una rimozione scaturita da una mobilitazione dal basso, un linciaggio popolano e forse anche un po' populista, senza l'intervento di alcun tipo di élite intellettuale. Inoltre la loro rimozione fu strettamente circoscritta al mondo delle country radio, mentre al contrario la generalità dei mainstream media le esaltò come eroine e martiri e fioccarono copertine di grandi magazine e Grammy Award risarcitori. Tuttavia, quei riconoscimenti non venivano da quelli che compravano i loro dischi.
Vent'anni dopo, cosa rimane di quel piccolo psicodramma?
George W. Bush, che all'epoca rappresentava la destra texana della quale vergognarsi, è stato da molti rivalutato perché, al confronto di Donald Trump, appare come un prudente statista; mentre gli scalmanati che allora, inferociti per l'affronto a Bush, si attivarono reclamando e ottenendo l'oscuramento radiofonico, presumibilmente oggi sono in gran parte elettori di Trump il quale, ironia della sorte, sulla guerra in Iraq da anni dice "da destra" ( link: "The War in Iraq was a Big, Fat Mistake": Trump & Bush Spar over War & 9/11) cose molto simili a quelle che vent'anni fa costarono la carriera alle Dixie Chicks. Le quali, dopo 14 anni di silenzio e latitanza, tre anni fa sono tornate in versione "allineata": hanno ripulito il loro nome - che pure vent'anni fa nessuno si era sognato di criticare come disdicevole - cancellando quel "Dixie" dal sapore sudista e quindi oggi politicamente scorretto. Ora si fanno chiamare solo "Chicks", con la differenz che il nuovo disco, costruito su contenuti vagamente femministi, sia un lavoro pop-folk nel quale rimane davvero pochissimo dello stile country grazie al quale le tre texane erano divenute celebri - e che forse, alla lunga, finirà per essere ricordato come la cosa migliore che hanno fatto.