L’America e la National Review: “Una questione di spazio”
La National Review, da punto di riferimento dei conservatori allo scontro con Trump: come la rivista di William F. Buckley ha cambiato la politica e la cultura americane.

È il 25 gennaio 1958 quando John Dos Passos pubblica sulle pagine della National Review il breve saggio A Question of Elbow Room: gli Stati Uniti sono in piena guerra fredda e lo scrittore statunitense mostra, in questo articolo, l’evoluzione del suo pensiero politico, incarnando e ampliando i temi fondamentali della cultura americana.
Per Dos Passos, infatti, è tutta una questione di spazio, fisico, politico e mentale: è la condizione necessaria per lo sviluppo dell’individuo e della democrazia. La società moderna, con l’avanzamento delle metropoli, delle istituzioni e del controllo statale, erode sempre di più l’elbow room, ossia quello spazio di manovra e di autonomia che permette libertà di scelta e di crescita umana individuale.
I cittadini devono essere liberi di sperimentare, creare e sbagliare, senza che lo Stato soffochi tale facoltà in nome dell’efficienza o di una presunta sicurezza collettiva.
Il cambio di rotta di Dos Passos, dal socialismo radicale alla feroce critica verso qualsiasi forma di autoritarismo, rifletteva la disillusione di un’intero pensiero e il bisogno di trovare, o forse costruire, un punto di riferimento in grado di far riaffiorare le radici più profonde dell’America.
Quel punto di riferimento Dos Passos (e non solo) lo aveva trovato nella National Review, la rivista fondata nel 1955 da William F. Buckley, scrittore e intellettuale, figlio dell’alta borghesia newyorkese. Dopo gli studi a Yale e una parentesi di due anni alla CIA, Buckley decise di costruire qualcosa che fosse più di un giornale: la National Review ha, infatti, cambiato e influenzato la politica americana per oltre quarant’anni.
Buckley, abilissimo oratore (al punto da riuscire a ottenere un talk show tutto suo, Firing Line, in onda dal 1966 al 1999) ed eccellente sportivo, oltre che prolifico scrittore, riuscì a dare corpo e sostanza ai conservatori americani: o meglio, a dare ai conservatori un modello culturale e politico a cui ispirarsi, lo spazio di cui avevano bisogno.
Prima di Buckley e della National Review, il Partito Repubblicano non era riuscito a inglobare fino in fondo il movimento conservatore: anzi, si potrebbe tranquillamente affermare che, prima di allora, essere conservatori negli Stati Uniti era un fatto quasi privato, intimo, non il segno ostensivo di una precisa identità politica o sociale.
La lotta al comunismo, il liberismo, la difesa della proprietà privata, erano per Buckley le basi su cui doveva fondarsi la destra americana: il suo padre ispiratore era ovviamente Edmund Burke, il filosofo e politico britannico leader della corrente liberale e conservatrice del partito Whig e sostenitore della rivolta delle colonie americane contro re Giorgio III.
Il progetto di Buckley era, in realtà, ancora più ambizioso: unire e ritrovare la radice comune di pensieri diversi, come l’anticomunismo e il libertarismo, e di fonderli in un’ideale da lui ritenuto più grande, ossia la liberazione dell’individuo oppresso dallo Stato.
La campagna presidenziale di Barry Goldwater del 1964, fortemente sostenuta dalla National Review, dimostrò che le utopie di Buckley dovevano scontrarsi con la realtà: diffondere le idee del senatore dell’Arizona divenne un imperativo della rivista, ponendo le basi per la definizione e l’organizzazione di una vera e propria campagna politica (portata avanti dallo stesso Buckley), che intendeva non solo sostenere Goldwater ma soprattutto definire i confini del movimento conservatore.
E se il primo scopo (la vittoria di Goldwater) non riuscì, non si può dire lo stesso del secondo: i conservatori avevano ottenuto un’identità ed eroso lo spazio dei repubblicani più moderati, e potevano finalmente contare su un sostegno politico, sociale e culturale notevole.
La potente macchina di Bourke si rivelò decisiva nel 1980, con il supporto a Ronald Reagan e a molti degli elementi chiave del reaganismo: dai tagli fiscali a una politica estera decisa, fortemente anticomunista. La National Review trova così in Reagan il modo di percorrere la via tracciata anni prima, con la campagna di Goldwater. Stavolta la commistione è totale: Reagan si rivela un ammiratore di lungo corso della rivista e alcuni membri della redazione verranno scelti dallo stesso futuro presidente (su suggerimento di Bourke) per collaborare alla campagna e poi all’amministrazione.
Negli stessi anni la National Review diventa il luogo ideale per ospitare gli interventi di Aleksandr Solženicyn: tra questi, la “difesa” da parte dello stesso scrittore russo del suo discorso a Harvard A World Split Apart in cui, tra le altre cose, metteva in guardia gli Stati Uniti dal declino spirituale. Frainteso dalla maggior parte dei giornali e dell’intellighenzia radical chic, la National Review accoglie invece le sue riflessioni, dimostrando ancora una volta di voler essere un’alternativa profonda e strutturata a un certo snobismo intellettuale.
È nel 2016 che la rivista decide di prendere le distanze, in maniera netta, da Trump: il 22 gennaio esce infatti un numero intitolato, senza troppi giri di parole, Against Trump, in cui si tenta di tracciare un nuovo confine all’interno del movimento conservatore. È una linea di demarcazione, che vede nel candidato repubblicano una minaccia ai principi fondamentali su cui la destra americana ha costruito la sua identità. Ed è un rimprovero, neanche troppo velato, agli stessi repubblicani, incapaci di opporsi all’ascesa di Trump e di fornire una valida e decisa alternativa. Il futuro presidente degli Stati Uniti ribatte con una serie di tweet, accusando la National Review di essere una pubblicazione in declino e di aver smarrito la via tracciata dal compianto Buckley (scomparso nel 2008). D’altronde, come ha ricordato lo stesso Trump al suo rivale Cruz che lo aveva rimproverato di incarnare i New York values in contrasto con la purezza dei valori conservatori, i conservatori nascono proprio nel cuore di Manhattan.
Lo scontro tra la National Review e Trump continua nel 2024 con un ulteriore editoriale, intitolato semplicemente No, e che inizia citando Voltaire. Il lento declino della rivista, di cui parlava Trump, è reale. Quello spazio che i conservatori hanno faticosamente conquistato, quel bisogno di avere un punto di riferimento culturale e politico, di includere ed escludere ciò che è dentro o fuori un canone, deve fare i conti con il trumpismo, con l’ascesa del movimento MAGA, con la certezza che non esiste più un giornale così influente da incarnare una frontiera per la destra americana. Ma anche con l’idea che i conservatori contemporanei non sentono più l’esigenza di avere una legittimazione culturale, perché abilissimi ad averne una ormai ben più importante: quella mediatica.


