L’altra faccia dell’emancipazione: la ribellione di Gabriel
Nell'agosto 1800, un'enorme insurrezione di schiavi minacciò di sconvolgere la Virginia. Un capitolo drammatico e fondamentale nella lotta per l'emancipazione degli afroamericani.
Il 1° gennaio 1863, in quella che passerà alla storia come Emancipation Proclamation, l’allora presidente Abraham Lincoln dichiarò alla nazione che “tutte le persone sotto schiavitù … sono, da qui in avanti, libere”. La schiavitù era stata abolita negli stati del Nord già da anni, ma la Proclamazione del 1863, insieme con la vittoria unionista della Guerra Civile, ne stabilirono l’illegalità a livello federale, di fatto mettendo fine a una delle parentesi più vergognose della storia degli Stati Uniti. Da quel momento in avanti, Lincoln divenne noto come “il Grande Emancipatore”, l’uomo politico che aveva donato la libertà alla popolazione nera; ma i meriti, innegabili, dell’allora Presidente, raccontano solo una parte del processo compiuto dagli afroamericani per affrancarsi dalle catene. Per quasi un secolo, essi hanno tentato ripetutamente, in forme locali e spesso disorganizzate, di ribellarsi a una condizione disumana. Alcune di queste rivolte, tuttavia, assunsero una portata e un grado di consapevolezza politica differente, e vanno considerate come tappe importanti nella lotta verso l’emancipazione.
Un caso particolarmente drammatico è quello della cosiddetta “ribellione di Gabriel”, organizzata nell’anno 1800 nella città di Richmond, Virginia e nella vicina contea di Henrico. È un’insurrezione che non ha mai avuto luogo: il piano venne scoperto prima di poter essere messo in atto e i cospiratori per la maggior parte furono giustiziati o dispersi. Ciononostante, quella di Gabriel è passata alla storia come la più grande rivolta organizzata da schiavi nella storia del Sud, e un punto di svolta mancato della storia americana.
Il contesto era quello di una nazione, gli Stati Uniti, in cui gli schiavi componevano il 20% della popolazione complessiva, e quello di uno stato, la Virginia, che ne contava la maggiore quantità tra tutti quelli dell’Unione. Politicamente, il Paese si trovava coinvolto nella lotta tra repubblicani e federalisti per le elezioni presidenziali, tra le più conflittuali e aspre della storia americana. I primi avrebbero presto eletto alla Casa Bianca Thomas Jefferson, ma nel momento in cui la rivolta della Virginia prese piede erano ancora i secondi a governare, applicando politiche mercantiliste che risultavano particolarmente aspre sui lavoratori del Sud. Anche fuori dai confini statunitensi ribolliva il conflitto. Nella vicina Haiti la ribellione degli schiavi contro il governo coloniale francese si era tramutata in una rivoluzione, destando particolare preoccupazione nei latifondisti del Sud, timorosi che il sentimento di liberazione haitiano potesse contagiare le loro piantagioni. Tutte queste contingenze, per un motivo o per un altro, crearono condizioni favorevoli a una grande insurrezione.
Ideatore e capo della ribellione era Gabriel, uno schiavo impiegato nella piantagione appartenente alla famiglia Prosser. In un’ironica coincidenza storica, Gabriel era nato nel 1776, lo stesso anno della Dichiarazione d’Indipendenza Americana, ed era cresciuto in schiavitù per tutta la sua giovinezza. Alla vigilia del nuovo secolo era ormai un giovane uomo, che aveva ricevuto dei rudimenti di istruzione e soprattutto una specializzazione tecnica sopra la media, imparando il mestiere di fabbro. Aveva già una storia di insubordinazione: un anno prima della ribellione aveva rubato un maiale e aveva aggredito il vicino dei Prosser che lo aveva scoperto, staccandogli un orecchio. All’epoca Gabriel aveva scampato la pena di morte per via del cosiddetto “beneficio del clero”, una legge della Virginia che garantiva punizioni meno severe agli schiavi che sapessero recitare a memoria un passo della Bibbia.
Durante i primi mesi del 1800, Gabriel e i suoi seguaci svilupparono un piano accurato. Si sarebbero armati, avrebbero ucciso i loro padroni, marciato verso Richmond, preso d’assedio il Campidoglio della Virginia e rapito il Governatore, nonché futuro quinto Presidente degli Stati Uniti, James Monroe. L’obiettivo era raggiungere una posizione politica vantaggiosa, e da lì trattare per la propria libertà. La popolazione della città era prevalentemente composta da neri, ma Gabriel contava di far leva anche sul malessere della classe lavoratrice bianca per rimpolpare le sue fila e creare un’alleanza interraziale in grado di mettere in seria difficoltà le élites locali. Lui stesso si mise a fabbricare le spade e i proiettili con cui armare la folla. Alla vigilia dell’attacco, il 29 agosto 1800, gli schiavi pronti a ribellarsi erano centinaia, armati, e avevano dalla loro il fattore sorpresa.
A provocare il fallimento del piano furono due elementi imprevisti. Il primo fu l’intervento naturale: un improvviso temporale estivo colpì la regione, ostacolando le manovre dei ribelli e scoraggiando molti a scendere in strada. Il secondo fu il tradimento di due schiavi che, preoccupati delle ritorsioni, confessarono l’esistenza del complotto al loro padrone, Mosby Sheppard, il quale avvertì Madison che immediatamente mobilitò la milizia. In poche ore decine di uomini furono arrestati, interrogati, e rapidamente processati. In totale almeno 26 uomini furono impiccati, uno si suicidò in prigione, e decine vennero venduti in piantagioni lontane. Gabriel sfuggì alla cattura per circa un mese, prima di venire catturato, riportato a Richmond e giustiziato.
Valutare gli effetti della ribellione di Gabriel è un procedimento meno semplice di come può sembrare. Nel breve periodo è certo che terrorizzò la popolazione bianca ben al di fuori della Virginia. Sebbene nessun uomo bianco fosse morto nel processo, la prospettiva che gli schiavi statunitensi potessero ripetere le gesta di quelli haitiani divenne visibilmente reale. Interessanti furono le reazioni politiche. Durante il quadriennio 1801-1805, il Congresso della Virginia, in gran segreto, discusse della possibilità di abolire la schiavitù nello stato. La popolazione nera aveva dato prova di avere le capacità di organizzare insurrezioni su larga scala, e gli stessi schiavisti valutarono se non convenisse evitare i rischi a esse legati. Prevalse tuttavia la linea della repressione: la milizia statale venne rinforzata, furono proibiti i raduni di schiavi e le chiese da loro frequentate vennero messe sotto stretta sorveglianza. A coloro che venivano liberati venne imposto di lasciare lo stato entro un anno, di modo da allontanare possibili sobillatori. La ribellione radicalizzò gli schiavisti del Sud, indirettamente rafforzando la loro stretta su coloro che consideravano, e per la legge erano, loro proprietà.
D’altra parte, sarebbe sbagliato considerare solamente le conseguenze a breve termine di questa storia. La ribellione di Gabriel va inserita nel lungo percorso di lotta che ha portato la popolazione afrodiscendente degli Stati Uniti all’emancipazione. Trent’anni dopo quel fatidico 30 agosto, la ribellione di Nat Turner avrebbe messo a ferro e fuoco la Virginia, a dimostrazione di come l’esperienza di Richmond avesse acceso una consapevolezza diversa nella comunità schiavizzata della regione. L’impresa tentata da Gabriel e dai suoi seguaci non va neanche definita come avulsa dal processo che portò alla Proclamazione di Emancipazione del 1863. Se Lincoln ha potuto compiere quell’atto è stato anche perché la coscienza nazionale aveva gradualmente compreso la disumanità della condizione di schiavitù, e quanto essa fosse incompatibile con una pacifica convivenza razziale. Nel contesto odierno, considerare l’emancipazione come un atto passivo, un dono ottenuto dagli afroamericani dall’uomo bianco, non è più possibile. L’emancipazione è stata ottenuta anche grazie all’azione attiva, e al sacrificio, di tanti uomini e donne che hanno sfidato l’autorità schiavista dell’America post-coloniale. Raccontare storie come quella di Gabriel e della sua ribellione è necessario anche per questo.