La veglia contro la deportazione dell’attivista Jeanette Vizguerra
Dal centro di detenzione ICE di Aurora, in Colorado, il reportage sul caso di Jeanette Vizguerra: un viaggio tra attivismo, detenzione a scopo di lucro e diritti negati agli immigrati
L’ICE Processing Center di Aurora, in Colorado, è un edificio imponente in mattoni rossi, parzialmente circondato da un fossato attraversato da un piccolo ponte per l’accesso di auto e persone rigorosamente autorizzate. Questo processing center è in realtà un centro di detenzione con una capacità di oltre 1.500 persone. Vi vengono portati immigrati arrestati dall’ICE in varie parti degli Stati Uniti, in attesa che si decida del loro destino. Potranno restare negli Stati Uniti o saranno deportati? E quanto tempo dovranno passare in una cella, anche se non hanno commesso alcun crimine? Settimane, mesi o anni? Questo centro, come molti degli altri degli altri duecento nel Paese, è gestito a scopo di lucro da un ente privato, ed è stato denunciato più volte dai detenuti per le condizioni di vita e di trattamento problematiche. Condizioni certamente ben lontane dal glamour hollywoodiano a cui gli Stati Uniti vengono spesso associati.
In una sera primaverile, circa duecento persone si sono radunate davanti al centro per una veglia in solidarietà a Jeanette Vizguerra, attivista per i diritti degli immigrati (e immigrata lei stessa), conosciutissima nella zona di Denver e arrestata la settimana precedente. La storia di Jeanette, 53 anni, è per molti aspetti una storia comune a tanti immigrati undocumented (cioè senza permesso di soggiorno). Come tanti altri immigrati messicani, attraversò il confine tra il Messico e il Texas con la figlia e il marito; correva l’anno 1997. Come tanti altri immigrati, iniziò a lavorare in uno di quei settori dove gli americani bianchi sono come mosche bianche: il settore delle pulizie. Come tutti gli altri immigrati undocumented, Jeanette passò tantissimi anni cercando di non farsi notare e restando lontana dalle pericolosissime “forze dell’ordine”.
Purtroppo, i suoi tentativi fallirono nel 2009, dopo dodici anni di permanenza nel Paese. Un giorno venne fermata dalla polizia della contea di Arapahoe per non aver rispettato uno stop, e uno degli incubi suoi e delle sue quattro figlie diventò realtà: un giudice firmò un ordine di espulsione dagli Stati Uniti. Vizguerra fece appello e l’ordine si bloccò, ma la sua situazione legale restò complicata, tanto che fu anche costretta a vivere in una chiesa per svariati mesi, poiché agli agenti dell’ICE era vietato fare arresti nei luoghi di culto (una protezione che è stata recentemente tolta da Trump). La storia di Jeanette ha una svolta chiave il 17 marzo scorso: gli agenti dell’ICE si presentarono sul suo posto di lavoro e la arrestarono per portarla in questo centro di detenzione, una mossa assolutamente illegale data la mancanza di un ordine firmato da un giudice, come sottolineano gli avvocati di Vizguerra.
Ma fin qui, purtroppo, la storia di Jeanette non ha nulla di speciale: è una delle tante storie di persone arrivate in questo Paese per cercare una vita migliore, che hanno lavorato per decenni, non hanno mai commesso un crimine, ma sono comunque detenute in attesa di deportazione. Alcuni aspetti, però, rendono unica la sua vicenda. Da trent’anni Jeanette è un’organizzatrice della sua comunità, dove è stata una voce importante non solo nella lotta per i diritti di lavoratori e lavoratrici, ma soprattutto per quelli della comunità degli immigrati. E non è stata solo una leader in altre associazioni: ne ha anche fondate alcune, come Abolish ICE Denver e Sanctuary4All. Quello che ha fatto in questi decenni è stato così importante che, nel 2017, Time Magazine l’ha inserita tra le cento persone più influenti al mondo per il suo coraggio nella lotta per i diritti degli immigrati. Questo arresto, quindi, ha sollevato interrogativi circa la sua natura: è avvenuto per lo status migratorio di Vizguerra o è da considerarsi politicamente motivato, come quello di Mahmoud Khalil? La vicenda riapre anche il dibattito sull’estensione del primo emendamento della Costituzione americana: la libertà di parola si applica anche agli immigrati?
L’aria che si respira all’evento è quella tipica della resistenza negli ultimi mesi. Da una parte si nota un certo livello di determinazione: “We shall not, we shall not be moved”, cantano i presenti accompagnati dalla chitarra e batteria dei musicisti. Ma dall’altra si percepiscono paura, tristezza e rabbia palpabili. Dopo alcuni annunci iniziali, gli organizzatori lasciano spazio agli interventi del pubblico. “È la prima volta che partecipo a una manifestazione, ma dobbiamo pur fare qualcosa, no?”, racconta una ragazza di circa vent’anni prima di scoppiare in lacrime. “Non possiamo fare finta che questo sia normale!”, urla un’altra partecipante, prima di tornare al proprio posto ed essere abbracciata da un’amica.
Particolarmente toccante è stato il momento in cui una delle figlie di Jeanette, Luna, ha ricevuto una telefonata dalla madre, collegata dal centro di detenzione. Jeanette ringrazia tutte le persone che hanno fatto donazioni per sostenere le sue spese legali, ma quasi subito vuole raccontare degli altri immigrati detenuti nel centro, quelli che non hanno alcuna visibilità perché non sono membri noti della comunità locale, quelli che da mesi non ricevono visite perché le famiglie vivono in altri Stati o Paesi e non hanno i mezzi per viaggiare fino in Colorado, quelli che non hanno soldi per il commissary e quindi non possono chiamare né i propri familiari né un avvocato. Jeanette ci dice di essere molto preoccupata per le persone detenute in queste circostanze. La folla applaude con energia, ma guardandosi attorno si nota come molte persone abbiano gli occhi rossi e si stiano asciugando le lacrime.
Jeanette introduce il lavoro di Casa de Paz, un ente che da anni si occupa di aiutare le persone detenute in questo centro, e una delle volontarie prende la parola. Casa de Paz si prende cura degli immigrati sia durante la detenzione che subito dopo il rilascio: cerca di far avere loro fondi per il commissary, così da poter chiamare casa o un legale; organizza volontari per andare a trovare chi non ha parenti o amici nella zona; si occupa di andarli a prendere al momento del rilascio e di scrivere loro lettere affinché non si sentano soli. In un contesto di progressiva privatizzazione dei servizi pubblici, il carico dell’assistenza dei più deboli ricade sempre più sui gruppi come Casa De Paz, il cui lavoro dipende dalle piccole donazioni e dalla presenza di volontari. Alcuni di questi gruppi erano supportati da fondi federali, ma quelli ormai sono del tutto scomparsi. Resta aperta la domanda su quanto sia sostenibile un modello che dipende dal supporto, monetario e pratico, delle persone comuni, sempre più povere e preoccupate per le proprie difficoltà personali. Se questo sistema collasserà, quali saranno le conseguenze per i più vulnerabili, come gli immigrati detenuti a scopo di lucro in questi centri? Impossibile saperlo, ma per ora si può almeno sperare in un esito positivo per Jeanette Vizguerra.