La strada femminista verso le riparazioni
E la centralità, ancora una volta, dei diritti riproduttivi
Il dibattito attorno al tema delle slavery reparation, seppur mai del tutto arrestatosi, ha ripreso particolare vigore negli ultimi dieci anni, anche grazie al lavoro di studiosi postcoloniali come Olúfẹ́mi O. Táíwò, che non hanno mai cessato di ricercare nuove forme di intersezione tra giustizia e riparazioni.
La vigorosa divisione accademica sull’intendere le riparazioni come strumento di giustizia correttiva (orientata, dunque, al passato al fine di correggere gli orrori della schiavitù) o come mezzo per realizzare forme di giustizia costruttiva (rivolta al futuro in quanto base di un ordine sociale migliore e egualitario), trova tuttavia un punto d’incontro fondamentale: le slavery reparation e le opposizioni che animano fanno emergere gli irrisolvibili conflitti razziali e identitari alla base degli Stati Uniti d’America. Per questo, meritano di essere poste al centro del dibattito politico, sociale e culturale americano.
Per raggiungere un tale obiettivo è, ancora una volta, la storia statunitense dei diritti riproduttivi a rappresentare la base su cui costruire robuste teorie in favore delle riparazioni: la completa assenza, infatti, durante gli anni della schiavitù di libertà riproduttiva e di autodeterminazione da parte delle donne nere è stata tanto a fondamento dell’istituzione stessa della schiavitù - garantendone una lunga e indisturbata sopravvivenza - quanto può rappresentare oggi l’essenza di ogni argomentazione volta a sostenere che una compensazione economica per le violenze e i soprusi di quegli anni costituisca una forma di giustizia irrinunciabile.
Partendo, dunque, proprio da quella storia al femminile fin troppo trascurata, è fondamentale sottolineare come l’articolo I della Costituzione Americana, alla sua sezione IX clausola I proibisse al governo federale di “importare persone” a partire dal 1808, raggiunti pertanto i vent’anni dalla ratifica del testo costituzionale. Da quel momento in poi, ogni espansione della forza lavoro schiavizzata sarebbe dipesa dalla riproduzione di coloro che già risultavano assoggettati. Così è stato: dalla scadenza chiaramente identificata dalla Costituzione, le donne nere persero completamente ogni autonomia sessuale e riproduttiva, venendo costrette - attraverso violenza sessuale, coercizione e forzature - a generare figli. La riproduzione forzata diventava, dunque, esperienza costitutiva dell’essere schiave, alimentata da un problematico rapporto con i padroni che calcolavano l’aumento dei propri profitti garantiti tanto dal lavoro produttivo, quanto da quello riproduttivo obbligato.
Nonostante l’oggettiva peculiarità testimoniata dalla storia, quando si parla di riparazioni meno di un decimo dell'uno per cento di questa letteratura menziona l'esperienza delle donne schiave. La colpevole assenza delle testimonianze di donne nere dal dibattito sulle riparazioni e dalla dottrina giuridica elaborata dai movimenti abolizionisti ha reso molto difficile valutare i dati relativi alla pratica dello sfruttamento della capacità riproduttiva delle donne schiavizzate. Contestualmente, i movimenti mainstream per i diritti riproduttivi non hanno mai saputo dare il giusto risalto e incorporare adeguatamente nei propri programmi politici la realtà dell’esperienza delle donne schiave. In assenza di tali contributi, si è reso molto difficile argomentare che specificatamente le donne nere dovrebbero essere al centro del dibattito sulle riparazioni in quanto direttamente danneggiate da politiche riproduttive basate esclusivamente sulla loro “razza”.
Gran parte dello sforzo accademico volto ad integrare l’esperienza femminile della schiavitù nei discorsi sulle riparazioni è stato condotto dall’avvocata e attivista per i diritti riproduttivi Pamela D. Bridgewater: nei suoi scritti non è mai mancata la formulazione di proposte concrete di compensazioni che sapessero mettere al centro la fin troppo dimenticata intersezione della razza con il genere.
A rendere il silenzio sulla storia femminile della schiavitù ancora più gravoso, non è solo il mancato adeguato riscontro che meriterebbero i lavori di Bridgewater, ma la trascuratezza riservata alle donne nere che, con le loro storie ed esperienze, hanno contribuito a dar vita e ad animare negli anni successivi alla abolizione della schiavitù il movimento stesso per le riparazioni.
Ne sono due esempi Callie House e Audley Moore: la prima, pioniera delle lotte per le riparazioni nel XIX secolo, fu tra le voci ad avviare la richiesta di risarcimento per secoli di lavoro non pagato mirando alle tasse sul cotone; la seconda - che si è spesso descritta come “nata da un uomo mezzo bianco che era il prodotto dello stupro di mia nonna” - nazionalista nera e comunista, ha dedicato gran parte del suo attivismo a insistere sulla necessità di ripagare gli afroamericani e afrodiscendenti negli Stati Uniti non solo per il lavoro schiavistico non retribuito, ma anche per la sistemica distruzione identitaria e per la continua negazione dei diritti delle persone nere durante la Jim Crow era.
Inoltre, per quanto nei suoi scritti non compaia mai la parola “riparazioni”, non è possibile soprassedere alla figura di Ida B. Wells, soprattutto se si desidera portare al centro del dibattito sulle slavery reparation le peculiari violenze schiaviste e razziste vissute dalle donne nere: l’analisi che Wells ha condotto nei suoi scritti sulla forte dimensione di genere presente in tutta la storia della schiavitù e negli anni dei linciaggi ha rifiutato di eludere i danni distintivi subiti dalle donne nere, rifocalizzando la discussione sul peso delle violenze fisiche, sessuali e riproduttive vissute da queste soprattutto durante il regime di Jim Crow, dove lo stupro e il linciaggio erano due armi parimenti utilizzate per annichilire la popolazione afromericana.
Fondare il dibattito intorno alla questione delle riparazioni sulla storia dei diritti riproduttivi delle donne nere non è solo una operazione di verità e una questione di attendibilità storica - che non rischi più di cadere nella trappola delle “selezione di genere” che per secoli ha proposto solo una versione maschile degli eventi - ma si tratta di fornire la risposta più concreta alle critiche che vengono mosse allo strumento della compensazione per precedenti orrori e violenze sistemiche.
Se, infatti, una delle accuse più comuni che viene rivolta al movimento in favore delle slavery reparation è che beneficerebbero di un eventuale risarcimento persone che non hanno vissuto la schiavitù o le conseguenze di Jim Crow, ma al contrario sono solo legati a questi eventi da una possibile discendenza, il tema della coercizione riproduttiva è la chiave di volta per vedere crollare queste argomentazioni.
Non solo si darebbe finalmente il giusto peso alla peculiare esperienza femminile della schiavitù che ha implicato tanto una cattività lavorativa quanto riproduttiva, ma l’essere “discendenti” di schiavi e dunque portatori di questa storia e identità renderebbe le riparazioni ancora più necessarie oltre che fondate - anche con riferimento all’epoca di Jim Crow, dove le violenze riproduttive non si sono di certo fermate, ma al contrario, hanno assunto la ulteriore forma delle sterilizzazioni forzate, chiaramente volte a eliminare ogni traccia dell’identità Afroamericana dal panorama statunitense (dopo averla riprodotta al fine di sottometterla per generazioni).
Le riparazioni si confermano, come sempre, un terreno di dibattito complesso: ricco di contributi da parte di giuristi, movimenti politici e filosofi, quello delle compensazioni economiche per i danni arrecati dalla schiavitù si presenta come un campo non immune ai bias di genere, che per troppo tempo hanno restituito ricostruzioni parziali della storia. Ridare centralità alle voci femminili che hanno fatto la storia delle riparazioni o che lavorano controcorrente per riuscire a ricostruire la vera storia dei diritti riproduttivi negli Stati Uniti è diventato pertanto cruciale - per vincere una volta per tutte la lunga lotta per le slavery reparations.