La salvezza di un’insolita amicizia in un braccio della morte in Texas
Le sette donne attualmente condannate a morte dallo Stato del Texas hanno creato un rapporto di vicinanza emotiva con un gruppo di suore. L’esperienza le ha trasformate.
Brittany Holberg ha inflitto cinquantotto coltellate a un uomo di ottant’anni che la pagava per fare sesso, poi lo ha legato con un cavo elettrico e infine gli ha spinto in gola il palo di una lampada. Kimberly Cargill avrebbe dato fuoco alla babysitter dei figli. Linda Carty avrebbe ucciso una vicina di casa per rapirle il bambino appena nato. Taylor Parker ha squarciato il ventre di una ventunenne incinta per asportarle il feto, poi è fuggita in macchina nascondendo il cordone ombelicale nei leggings. Erica Sheppard ha accoltellato una donna nella sua abitazione, usando un coltello trovato in cucina, per rubarle l’automobile. Darlie Routier avrebbe ucciso due dei suoi tre figli. Melissa Lucio avrebbe picchiato e abusato della figlia di due anni a tal punto da causarne la morte.
Per questi crimini, confessi o presunti (il condizionale è concesso a chi si professa innocente nonostante la condanna in via definitiva), lo Stato del Texas ha sentenziato le sette donne alla pena di morte. Brittany, Kimberly, Linda, Taylor, Erica, Darlie e Melissa condividono questo destino nella divisione femminile del carcere di Gatesville, trecento chilometri a nord di Austin, nel Texas centrale.
È qui che nel 2021, su iniziativa di un diacono che abitualmente visita il carcere, ha fatto ingresso un gruppo di Sorelle di Maria Stella Matutina (Sisters of Mary Morning Star in inglese), un ordine di suore cattoliche contemplative con un convento a Waco, mezz’ora a est di Gatesville. Negli anni, tra le sorelle e le residenti del braccio della morte si è creato un imprevisto rapporto di profonda vicinanza emotiva. Questa amicizia ha restituito dignità e speranza alle donne condannate. Ha portato alla luce la loro umanità e le circostanze di vita disperate che le hanno intrappolate nella tragedia del crimine. Ha evidenziato la dubbia consistenza della pena capitale come espiazione estrema della colpa.
Il giornalista Lawrence Wright, già vincitore di un premio Pulitzer per la saggistica, ha raccontato questa storia in un lungo e avvincente articolo sul New Yorker.
Le Sorelle di Maria Stella Matutina non avevano mai ricevuto un invito come quello di Ronnie Lastovica, un mandriano ordinato diacono che presta servizio nel carcere di Gatesville. Offrire guida spirituale a un gruppo di condannate a morte non rientra nella lista di mansioni dell’ordine contemplativo, dedito alla preghiera, al silenzio e al lavoro entro le mura del convento.
Dopo la prima visita al braccio della morte, però, sono emerse tutte le similitudini tra l’esperienza delle suore e quella delle detenute: l’esistenza solitaria in una piccola cella, che sia in prigione o in convento, l’abbigliamento uniforme e monotono – casacca e pantaloni bianchi per le prigioniere, tunica grigia e velo bianco per le suore –, le lunghe ore passate in silenzio a contemplare la vita e la morte. Le Sorelle di Maria Stella Matutina e le sette condannate a morte dallo Stato del Texas potevano capirsi di più di quanto chiunque avrebbe immaginato.
Per Brittany, Kimberly, Linda, Taylor, Erica, Darlie e Melissa si è aperto uno scenario inedito: la possibilità di essere abbracciate nella loro umanità al di là della condanna a morte, evento decisivo e totalizzante della loro esistenza. Se per lo Stato del Texas le sette donne non sono altro che l’incarnazione del male, con le Sorelle di Maria Stella Matutina le detenute si sono riscoperte persone desiderose di riflessione, crescita e trasformazione.
“Quando ti focalizzi sul male, ti incupisci”, ha detto Suor Mary Thomas a Wright in un’intervista per il New Yorker. “Non cerco di capire perché l’hanno fatto, o chi ha fatto cosa. Dio ci ha inviato qui per amarle per quello che sono – che siano pentite, che non lo siano, che non vogliano ammettere la realtà, che siano innocenti”. Le fa eco Suor Jeanne Thomas: “Noi vediamo solo chi sono ora”.
Fermarsi alla componente religiosa nella comprensione di questa storia sarebbe un errore. Decidere di non farsi colpire perché le protagoniste attribuiscono a Dio la genesi del loro rapporto ignora due elementi fondamentali: innanzitutto, la cornice texana degli eventi. In Texas, la religione fa capolino nei contesti più svariati come atteggiamento culturale, prima ancora di esercizio della fede. “La religione, in particolare quella cristiana, è spesso invocata nei tribunali del Texas”, scrive Wright nel suo articolo. Lo stesso Wright rivela di non essere un uomo di fede – questo non gli ha impedito di percorrere più volte al mese, per un anno intero, trecento chilometri da Austin a Gatesville per immergersi nella vicenda delle condannate a morte che fanno amicizia con le suore e ne escono trasformate.
L’elemento più importante, però, è che il concetto di redenzione, che è la morale centrale di questa storia, sorpassa l’accezione religiosa per illuminare domande urgenti e del tutto laiche sul ricorso al castigo della pena di morte per rendere giustizia al delitto – e sulla vulnerabilità di persone come Brittany, Kimberly, Linda, Taylor, Erica, Darlie e Melissa all’interno del sistema che le ha condannate alla pena capitale in quanto “intrinsecamente cattive”.
Viene da chiedersi se è davvero così – come fa Wright sul New Yorker – scoprendo le devastanti storie di vita che le hanno condotte al braccio della morte.
Prima di diventare nota allo Stato del Texas nel 1996, a ventitré anni, per aver ucciso a coltellate l’uomo per cui si prostituiva, Brittany non aveva conosciuto altro che una vita di abusi. Nata già dipendente dall’eroina a causa della tossicodipendenza della madre, a quattro anni è stata molestata da una babysitter, a quindici da un amico del patrigno (“Tutto ok, anche io ci ho fatto sesso”, ha reagito la madre al racconto di Brittany); qualche anno dopo è stata violentata e accoltellata durante uno stupro di gruppo. A dieci anni i genitori le passavano la droga. A diciassette si è sposata, a diciannove ha partorito una bambina, a venti ha divorziato e iniziato a prostituirsi. Successivamente, sentendo di non potersi prendere cura della figlia, l’ha lasciata all’ex marito (Brittany e la figlia non hanno contatti da quel giorno nei primi anni Novanta).
“Quando è accaduto tutto ciò che mi ha portato qui”, ha detto Brittany a Wright, “ero così completamente distrutta che non sentivo alcuna speranza. Ho passato i miei primi dieci anni [nel braccio della morte, ndr] cercando di comprendere lo scopo della mia vita”.
Brittany è rea confessa di un delitto efferato (durante il processo, ha sostenuto di aver agito per legittima difesa). Ma è per questo “intrinsecamente cattiva” – la disposizione d’animo che lo Stato del Texas chiede di provare oltre ogni ragionevole dubbio per motivare la pena capitale – oppure è lei stessa vittima innocente di un’esistenza che l’ha condannata a perdere in partenza, un abuso dopo l’altro fino alla tragedia ultima dell’omicidio?
Inoltre, come scrive Wright nell’articolo, il sistema giudiziario texano ha messo le sette donne in una posizione di vulnerabilità da un punto di vista di genere, razza e classe. Le donne sono giudicate secondo standard morali più alti degli uomini: una donna accusata di uccidere un figlio non suscita pietà, perché sfida le aspettative sociali nei confronti di una madre. Melissa ha subìto diverse ore di interrogatorio sul buon esercizio dei suoi compiti di madre; al marito non è stata rivolta nessuna domanda di questo tipo. In certi casi, è entrato in gioco il pregiudizio razziale: Erica e Linda sono nere, Melissa è ispanica (tre quarti dei 168 uomini attualmente condannati a morte in Texas sono neri o ispanici). Tutte le donne (a parte Darlie) provengono da contesti socio-economici di carenza e povertà, che hanno impedito loro di permettersi una difesa di qualità.
Sono state delle suore a sollevare le sette donne dalla miseria del braccio della morte come termine ultimo di un’esistenza già condannata da esperienze impietose – per quanto effimero sia il sollievo in attesa della pena capitale. Ed è stata l’accezione religiosa di redenzione a giocare un ruolo fondamentale: “Il Signore [...] ha preso la mia distruzione e l’ha nutrita e cresciuta in qualcosa che può portare frutto e gioia”, ha scritto Brittany in una lettera a Wright. “Laddove il mio cuore era stato indurito dalle mondanità, lui ha scavato in profondità e setacciato con le sue mani. Poi ha piantato semi che sono sbocciati e hanno messo radici profonde nel mio cuore”.
Ma poteva e può essere chiunque abbia la volontà e sia in grado di abbracciare le condannate a morte dallo Stato del Texas per le persone che sono, e niente più. Poteva essere una vicenda dai contorni completamente laici ma, in presenza di una tale umanità, il risultato sarebbe stato lo stesso.
Se in ognuno dei ventisette Stati in cui ancora vige la pena di morte si mobilitassero forze di questo tipo, laiche o religiose, chissà che un giorno la pena capitale negli Stati Uniti non diventi un lontano ricordo.