La Notte degli Oscar e la Fabbrica dei Sogni: intervista a Gianni Canova
In previsione della Notte di premi cinematografici più attesa dell'anno, abbiamo chiacchierato di cinema americano con Gianni Canova, docente di storia del cinema presso l'università Iulm.
Da sempre la Notte degli Oscar è un punto fermo della proiezione dell’immaginario degli Stati Uniti nel mondo, un evento visto in tutto il pianeta – seppur da anni in crisi costante di ascolti – che celebra il cinema americano e ci dà la possibilità di riflettere sullo stato dell’arte e della cultura al di là dell’Atlantico. Ne abbiamo parlato con Gianni Canova, rettore dell’Università IULM, professore ordinario di Storia del Cinema e Filmologia e, per vent’anni, una delle voci principali di commento della serata per il pubblico italiano.
Quando noi parliamo di Stati Uniti oggi, a livello politico/sociale, descriviamo un mondo polarizzato e in crisi, spesso con la frase giornalistica “lontano dalle luci di Hollywood”. Il cinema americano da grandi concorsi di oggi a me sembra, però, pregno del racconto della crisi. Come percepisce il racconto dell’oggi da parte dell’industria cinematografica americana?
Partirei da un presupposto fondamentale: il cinema americano – differentemente rispetto a gran parte del cinema europeo – non si è mai posto storicamente il problema principale di raccontare il mondo così com’è. L’industria cinematografica americana, da sempre, racconta mondi immaginari, e non a caso il nomignolo di Hollywood è “la fabbrica dei sogni”. Se milioni di persone sono andate al cinema e si sono appassionate dei film hollywoodiani è perché sono stati capaci di arrivare alla costruzione di un mito universale, che si è poi trasformato in leggenda. È vero che ultimamente, anche in America, è arrivata una certa tendenza di cinema realista, di racconto della realtà così com’è e per quello che è, con una Hollywood che ha cercato di dare forma alla crisi. Il cinema però non vive solo di realtà, ma anche di un impianto narrativo che ti aiuta a comprendere meglio le dinamiche della società, e Hollywood ha sempre saputo farlo bene anche senza il realismo. Se devo pensare a un film che racconta in modo pregnante la polarizzazione e la crisi degli Stati Uniti odierni non posso non pensare a Joker di Todd Phillips, un film basato sul personaggio di un fumetto, che fa però venire a galla contraddizioni e tensioni sociali in maniera molto più emblematica di molti film realisti.
Nonostante questa idea della crisi e di racconto di essa, per noi Hollywood è strettamente legata al concetto di glamour, di star-system, fin dal dopoguerra. Secondo lei, se dovesse fare una panoramica, come è cambiata la percezione del mondo cinematografico americano da parte del pubblico italiano da quando Hollywood è arrivata a Roma nel dopoguerra in avanti?
Il cinema americano entra in maniera preponderante in Italia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale; già durante gli ultimi anni del fascismo, infatti, era stata bloccata l’importazione di gran parte delle pellicole statunitensi, oramai diventato cinema del nemico. Col Piano Marshall arriva una significativa apertura dei mercati e quindi giungono da noi anche tutti quei film prodotti nei primi anni ’40 che una generazione non aveva mai visto. È impossibile non citare “Un americano a Roma”, film del 1954 con Alberto Sordi che è l’emblema di una generazione di giovani romani di Trastevere che si comportano come fossero americani. La capacità di creare egemonia è poi stata sempre più forte durante i ’50 e i ’60, con la nascita della cosiddetta “Hollywood sul Tevere”, quell’insieme di accordi che hanno legato l’industria cinematografica e le produzioni americane all’Italia, con kolossal girati a Cinecittà anche per via dei bassi costi di produzione. In questo periodo in Italia attecchisce lo star system hollywoodiano e un divismo molto marcato. Per certi versi questi aspetti durano ancora oggi: il fatto che milioni di italiani seguono gli Oscar assiduamente fa capire che la fascinazione del nostro Paese verso il cinema americano è ancora viva. C’è un punto però, soprattutto legato agli ultimi anni, da analizzare. Il cinema americano ha smesso di incantare, è uscito dalla “fabbrica dei sogni” precedentemente menzionata, occupandosi sempre più spesso non solo di crisi, ma anche di un sistema di rappresentatività quotistica, magari giusta a livello sociologico, ma spesso a scapito del valore artistico del cinema. Hollywood ha faticato moltissimo negli ultimi tempi a produrre film originali, grandi storie americane; devo però dire che è un trend cambiato nell’ultimo anno, le candidature che si giocheranno le statuette domenica sono molto interessanti, spesso libere da obblighi di rappresentatività. Film anche divisivi, che hanno generato discussioni, ma che hanno fatto sì che la società tornasse a parlare di cinema, come “Oppenheimer”, “Barbie” e “Povere Creature”.
Società che non solo è tornata a parlare di cinema, ma è tornata al cinema. Ho visto, andando in sala a vedere i film in concorso, molto pubblico. Mi sembra, dopo anni difficili, un bel momento per il cinema come luogo di ritrovo.
Sta sicuramente riprendendo il gusto di andare in sala, per più motivi. Abbiamo vissuto anni in cui c’era molto poco, in cui io stesso faticavo a consigliare qualcosa da andare a vedere: adesso ci sono tantissimi film interessanti. Diciamo anche che in Italia, all’inizio di gennaio, erano in testa al botteghino “Perfect Days” di Wim Wenders e “Il Ragazzo e l’Airone” di Hayao Miyazaki, nei giorni scorsi ha avuto una grande apertura “Past Lives” di Celine Song. Non solo quindi la gente è tornata al cinema, ma lo ha fatto prediligendo opere dall’importante significato autoriale. Film di questo tipo che incassano tanto è un segnale su cui bisognerebbe meditare. Oggi poi, con tantissime piattaforme streaming, si è generata un’offerta talmente ampia che disorienta lo spettatore; e il pubblico ha capito che ci sono cose che vanno viste in sala. Film come “Oppenheimer”, o come “La Zona d’Interesse” di Glazer per via del lavoro fatto con gli effetti sonori, vanno assolutamente visti in sala.
Parliamo quindi della notte che celebra il glamour hollywoodiano, gli Oscar. I dati reali ci dicono che in America la Notte è passata dal fare 43 milioni di spettatori a 18 milioni nell’arco di 20 anni. Si può, come spesso fa l’Academy, dare la colpa alla polarizzazione politica (l’Academy spesso rappresenta una visione di sinistra, quindi se sono di destra non guardo la cerimonia ndr) ma se negli ultimi dieci anni la cosa di cui si è più parlato è stato uno schiaffo di Will Smith a Chris Rock, un momento non scritto dagli sceneggiatori, forse il problema è una cerimonia vecchia, poco adatta a un pubblico giovane. La Notte degli Oscar come format è in crisi? E quali sono le ragioni principali?
Ho fatto per vent’anni il commento della notte degli Oscar, dal 2004 fino all’anno scorso. Se devo trarre un bilancio, è tutto noiosissimo. Nella patria della drammaturgia non sono mai riusciti a inventare un sistema che rendesse il tutto più avvincente; ora, sulla carta non dovrebbe essere difficile, però a conti fatti lo è dato che tutte le cerimonie a premi soffrono degli stessi problemi legati alla noia, anche i David di Donatello italiani. Il tentativo di rendere più divertente il tutto è complesso, sono tre ore (più altre tre se si segue anche il red carpet) composte da un insieme di gag caricaturali. È sicuramente un segno di debolezza, dato che non si riesce a costruire una cerimonia minimamente avvincente. C’è poi un altro problema: gli Oscar, non dimentichiamolo, sono un premio aziendale, non rappresentano un sistema valoriale in assoluto. Grandissimi artisti come Orson Welles, Stanley Kubrick e Charlie Chaplin l’Oscar non l’hanno mai vinto. Bisogna premiare più o meno tutti, non scontentare nessuno, e sono premi più extracinematografici che artistici. Se fai una distribuzione a pioggia dell’Oscar, dando tre o quattro statuette a tutti non costruirai più il grande film da Oscar, quello che ne vince 11 e porta tutto il mondo a vederlo; spesso, poi, vincono film poco attrattivi per il grande pubblico, e il miglior film degli Oscar non ha più un esito commerciale sicuro. Quando a vincere, però, è un film come “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” siamo di fronte a un buon esito commerciale, proprio perché è un film capace di coinvolgere il pubblico. Un altro problema è che i votanti dell’Academy sono membri a vita, nominati da chi ne fa già parte. La maggior parte dei giurati sono attori per lo più anziani, anche molto anziani, con una visione del cinema poco aggiornata, legati, magari anche nobilmente, a un passato che le giovani generazioni sentono più lontano. Per questo gli Oscar vanno poco a premiare lo sperimentalismo e la rottura, e l’aggiornamento è dato proprio dall’ecumenicità nella scelta dei premiati.
Per chiudere l’intervista, un film che secondo lei è imperdibile e perché? Una statuetta per cui fa il tifo?
Vorrei, per ovvi motivi, che nella categoria “Miglior Film Straniero” vincesse Matteo Garrone con il suo “Io Capitano”; tra i film candidati a “Miglior Film”, tutti molto belli, credo che vorrei vincesse “Povere Creature” di Yorgos Lanthimos, regista greco che ora lavora in America.