Perché gli Stati Uniti? Perché continuiamo a leggere, a scrivere e a interessarci di ciò che avviene dall’altra parte dell’Oceano?
Una delle risposte più complete e convincenti a queste domande è di Cesare Pavese: nel 1932 si occupò della traduzione di un’opera ormai quasi dimenticata Riso nero (Dark Laughter), di Sherwood Anderson. Il libro si attirò molte critiche nel corso del tempo, soprattutto a causa del linguaggio e dei temi considerati razzisti, tanto da finire fuori catalogo negli anni Sessanta e Settanta.
Pavese, oltre a tradurre il romanzo, ne firmò una puntuale prefazione dal titolo L’arte: l’ordine dov’è il caos (contenuto in Saggi letterari, 1973, Einaudi) forse superiore per intensità e giustezza all’opera stessa dello scrittore americano.
Ma chi era Sherwood Anderson? A raccontarlo è proprio Pavese: “un giovane operaio che passava le sere buttato su un letticciolo in una camera ammobiliata - molto male ammobiliata - a legicchiare le cose più disparate”, nel cuore di Chicago alla fine dell’Ottocento.
Lì, nella città che stava diventando il motore industriale ed economico dell’intero Paese, Anderson andò a cercare un po’ di fortuna, ossia tutta quella che non aveva avuto o che in qualche modo gli era stata tolta. Il padre era un alcolista e la madre morì di tubercolosi poco prima che lui compisse vent’anni. La situazione economica della famiglia (come di molte famiglie dell’America rurale dell’epoca) era assai precaria finché non precipitò in un abisso.
“L’infanzia nell’Ohio aveva insegnato a Sherwood Anderson soltanto a leggere e a scrivere e che la vita è dura”.
Ma anche a Chicago la situazione non cambiò: anzi, trovò una durezza diversa ma forse ancora più brutale, “uomini che faticavano, che lottavano, che si davan gomitate [...] aggreggiati in baracche altrettanto provvisorie che nelle campagne, con parole altrettanto banali e neanche più il conforto degli orizzonti aperti. [...] una miseria spietata, uno sfruttamento della bestia umana quale non s’era più visto dai tempi degli schiavi”.
Fin qui la storia di Sherwood Anderson somiglia a molte delle vite di scrittori e artisti americani, tra povertà estrema, fame di riscatto e una serie continua e incessante di svariati lavori.
“Si chiedeva l’operaio Sherwood Anderson: qual è mai il significato di quest’enorme nazione che è fatta dei rifiuti di tutte le nazioni; che vive, che suda, bestemmia e si rinnova continuamente; che non ha bellezza, non ha memorie, non ha nulla, se non un’avidità smisurata di vita e di fortuna e che nelle sue espressioni sinora più alte non ha saputo che scimmiottare i gesti stracchi dell’Europa, e riverniciarsi dei lustri più falsi dell’Europa?”. La risposta a questa domanda, dice Pavese, Anderson la cercherà per tutta la vita: nella povertà, nel lavoro, nella fatica ma soprattutto nella letteratura e nella scrittura.
Nella nazione dei sogni promessi e dei racconti che si sostituiscono alla Storia, delle diversità riconosciute e al tempo stesso negate, delle contraddizioni radicali e amate, dello stupore che cede il passo alle disillusioni, gli scrittori americani (compreso Anderson) ci insegnano che è possibile fare ordine, o meglio trovare un modo per osservare le cose e impedire che il caos ci travolga.
Dunque perché proprio gli Stati Uniti? Perché qui ordinare il caos significa anche sopravvivere come operaio in un letticciolo di una camera e contemporaneamente diventare lo scrittore che ispirerà Steinbeck; significa accettare che i sogni possono trasformarsi in incubi (o viceversa); che il destino esiste e che si lega ai luoghi più di quanto crediamo; che l’eccezionalismo può convivere con paure ataviche; che i dimenticati, gli ultimi, gli sconfitti fanno parte anche loro di una mitologia che divora sé stessa. Ogni scrittore può raccontare la sua America, così come ognuno di noi può trovare un’America in cui identificarsi o da cui fuggire, da criticare o da ammirare: la verità è che scriviamo e parliamo di Stati Uniti perché ne abbiamo fatto il posto ideale per racchiudere e osservare le nostre speranze e le nostre contraddizioni. L’America, così come la conosciamo, è solo l’eco di un nostro disegno: è esattamente lì, tra le pagine di Faulkner e Edna Febner, nelle battute di Billy Wilder, tra le parole di Paul Auster e Toni Morrison, che ritroviamo ciò che vogliamo o neghiamo di noi stessi.