La libertà secondo Ron Paul
Ron Paul, il "nonnino pazzo" della destra Usa, padrino del movimento populista e libertario contemporaneo.
Prova a immaginare se da qualche parte in mezzo al Texas ci fosse una grande base militare straniera: diciamo cinese, oppure russa.
Immaginati migliaia di soldati stranieri che controllano permanentemente strade americane, su veicoli militari.
Immagina che ciò avvenisse con il pretesto di "promuovere la democrazia", o di "proteggerci", o di "proteggere i loro interessi nazionali".
Immaginali operare fuori dalla legalità stabilita dalla legge degli Stati Uniti, e senza che a loro si applichi la nostra Costituzione...
Immagina alcuni americani così arrabbiati per questa presenza straniera in Texas da imbracciare le armi e mettere in piedi delle formazioni combattenti a difesa della nostra sovranità, dal momento che il nostro governo non sa o non intende faro; immagina se per questo quegli americani venissero definiti terroristi e quotidianamente uccisi, imprigionati o torturati…
…La realtà è che la nostra presenza americana su suolo straniero è un’offesa ai popoli che vivono in quei luoghi, proprio come lo starebbe la presenza di una base di militari cinesi in armi in Texas.
Chiudere tutte le nostre basi militari all'estero e porre fine alle nostre alleanze con altre nazioni non è "isolazionismo": è l'esatto opposto, è aprirci ad amicizia, commercio onesto e diplomazia, una politica estera di pace e prosperità. Ed è l'unica politica estera che non ci porterà al fallimento in breve tempo, come invece accadrà certamente con il nostro agire attuale.
Contrariamente a ciò che in esso si tenta di affermare, questo discorsetto potrebbe essere un esempio perfetto di isolazionismo – rendiamoci neutrali come la Svizzera e facciamoci gli affari nostri, che ci conviene – imbevuto, per di più ,di una discreta dose di antiamericanismo ideologico: tutti i problemi degli americani, inclusi gli attentati dell'11 Settembre 2001, sarebbero diretta conseguenza di colpevoli errori con i quali gli Stati Uniti se la sono andata a cercare, impicciandosi di ciò che sta fuori dai propri confini. Si sente l'eco di quel tic stigmatizzato nel "Blame america first" che rese celebre il discorso che Jeane Kirkpatrick, intervenendo da Democratica, pronunciò nel 1984 alla Convention nazionale Repubblicana per la rielezione di Reagan, in polemica con le posizioni assunte dal suo partito alla Convention di San Francisco.
Si potrebbe pensare che si tratti di parole pronunciate da un esponente dell'estrema sinistra, da Bernie Sanders o da Alexandria Ocasio Cortez. Invece si tratta del testo di uno spot elettorale a sostegno della candidatura, alle primarie presidenziali repubblicane del 2012, di Ron Paul: l'unica vera "star" uscita negli ultimi decenni dalla nicchia del libertarismo americano. L'ultima frase, in particolare, è proprio sua: nello spot la si ascoltava dalla sua viva voce.
Ex ginecologo e animato da profonde passioni intellettuali, Ron Paul era in politica da decenni, ma sino a quattro anni prima non era nessuno: era stato più volte Deputato (Repubblicano) tra gli anni ‘70 e gli anni ‘90, senza però mai riuscire a farsi notare, ed era stato candidato alla Casa Bianca nel 1988 per l'irrilevante Partito Libertario, prendendo un patetico 0,5%.
La tarda ascesa
Vent'anni dopo, nel 2008, alla veneranda età di 73 anni, aveva presentato per la prima volta la propria candidatura alle primarie presidenziali repubblicane nelle quali il Grand Old Party doveva decidere chi candidare per la successione a George W. Bush. Incredibilmente, quella volta era finalmente riuscito a farsi notare, eccome.
Il suo messaggio antistatalista e pacifista, una rivolta contro il "big government" e contro la guerra, e in generale un po' contro tutto quello che costa soldi ai contribuenti, calamitò le simpatie e l'attivismo di un allora nuovo genere di simpatizzanti/militanti: quelli particolarmente presenti e attivi sul web. In termini di ricerche su Google, interazioni su Facebook, visualizzazioni sul suo canale YouTube e di risultati nei sondaggi online, Paul risultò improvvisamente alla pari, quando non addirittura davanti, ai frontrunner Repubblicani. Si era costituita una fanbase cibernetica che inondava puntualmente il web con azioni di sostegno.
Questo venne ben presto notato e portò le redazioni dei mass media ad inserirlo il più spesso possibile nelle loro cronache, nell'intento di intercettare il traffico garantito dal seguito dei suoi web-militanti. Il sostegno di questi si tradusse anche in un numero record di micro-donazioni, che tradizionalmente producono risultati modesti in termini prettamente finanziari – per avere i big money servono i big donors – , ma sono un ottimo sintomo della popolarità di un candidato.
La nuova realtà di internet e delle sue nuove opportunità di comunicazione e attivismo spiega però solo una parte del fenomeno. Il 2008 era in effetti un anno di fermento. “Che sia semplicemente un anno strano”, si chiese l’opinionista neoconservatore Bill Kristol, “o sta forse accadendo qualcosa di grosso? Stiamo assistendo ad uno dei periodi di risvegli politici e culturali dell’America, a una delle nostre occasionali, quasi compulsive reazioni democratiche alla distanza, percepita come eccessiva, tra la gente e i suoi “establishment”? Risvegli di questo genere possono essere anche improvvisi, e possono anche arrivare su più fronti contemporaneamente. Spesso sono accomunati da un tema ricorrente, ossia la richiesta popolare: “piantatela di parlare in nostro nome, e cominciate un po’ ad ascoltarci”.
Non a caso quelle primarie repubblicane le vinse, riuscendo dove otto anni prima aveva fallito, il "cane sciolto" John McCain, battendo il candidato più ricco e più gradito all’establishment del partito, Mitt Romney; e simmetricamente, nelle primarie democratiche, la candidata del vecchio establishment, Hillary Clinton, da tempo considerata la favorita al limite della predestinazione, venne battuta dal giovane outsider Barack Obama.
Paul invece non vinse nemmeno una di quelle primarie e alla fine, anziché dare il suo appoggio a McCain, si ritirò polemicamente e invitò i suoi fan a votare per uno qualunque dei tre candidati "minori", l'indipendente Ralph Nader, la verde Cynthia McKinney, il libertario Bob Barr.
Il padrino intellettuale
Quello che rimase fu l'attribuzione a Ron Paul del titolo di “intellectual godfather” del movimento populista di protesta anti-tasse "dal basso" dei cosiddetti "Tea Party" che avrebbe costituito una delle componenti più vivaci dell'opposizione all'amministrazione Obama. Forse anche per questo egli pensò bene di riprovarci nel 2012, quando i Repubblicani cercarono il candidato giusto per cercare di detronizzare il nuovo Presidente dopo un solo mandato. Stavolta Paul, che all'epoca aveva ben 76 anni, poteva contare non solo sulla sua ormai celebre tribù di web-militanti, ma anche su un grande finanziatore: il co-fondatore di PayPal Peter Thiel.
Ci fu poi l'attenzione datagli dall'editore filo-repubblicano numero uno, Rupert Murdoch: la sera del 31 dicembre 2011, apparentemente mentre si trovava in vacanza ai Caraibi a festeggiare l'ultimo dell'anno, il vispo ottantenne si era iscritto a Twitter, e nelle prime 24 ore il suo account @rupertmurdoch aveva già raccolto oltre 50mila follower. La cosa fece scalpore nel mondo dei media, e molti notarono che il suo quarto "cinguettìo" in assoluto era stato questo:
("Gran bell'editoriale su Ron Paul sul Wall Street Journal di oggi. Messaggio libertario molto intrigante". ).
Poi, a maggio Murdoch se ne uscì a twittare così:
Sto leggendo un nuovo libro su Ron Paul. Affascinante. Ron è di certo un modello di coerenza, nel bene e nel male. Qualcuno su qui su Twitter ne vuol discutere?
Subito scaturì il dibattito online, e Murdoch avvertì l'esigenza di twittare non una ma due volte la sua presa di distanza dalla posizione di Ron Paul sulla politica estera. Prima precisazione: "L'isolazionismo di RP è troppo estremista secondo me. Ritirarsi del tutto vuol dire lasciare tutto a qualche altra superpotenza". Seconda: "Molta saggezza in R.Paul, MA sarebbe un mondo migliore se lasciassimo che la Russia si prenda tutto in Europa, e la Cina in Asia e in Indonesia?".
Il che ci riporta al ricordo dal quale siamo partiti, quello spot sulla "base militare cinese in mezzo al Texas". Dovettero essere in molti a pensarla come Murdoch, giacché Paul perse miseramente anche quelle primarie. Quella sua seconda candidatura fu in realtà l'atto finale della sua carriera: andò in pensione 10 anni fa. Adesso ha 87 anni ed esiste tutt'al più come opinionista web. I suoi voti sono probabilmente confluiti in buona parte nel movimento MAGA di Donald Trump, ma nel 2019 lui invitò (link: Ron Paul Endorses Tulsi Gabbard ) a votare invece per la Democratica populista (e isolazionista) Tulsi Gabbard. La quale, per la cronaca, in quelle primarie non superò mai il 5%, e finì per ritirarsi e dare il suo appoggio a Biden: i conti tornano.
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