La deportazione dei palestinesi e il bias filo-israeliano nei media americani
La copertura mediatica del piano di Trump per Gaza ha messo in luce una difficoltà dei giornali nel chiamare le cose col loro nome
Donald Trump ha minacciato di deportare i Palestinesi da Gaza cinque giorni dentro il nuovo mandato da presidente degli Stati Uniti. Ha un piano: vuole assumere il controllo della Striscia, trasformarla in una “Riviera del Medio Oriente”. E i Palestinesi? In Giordania. O in Egitto.
Dando un'occhiata ai titoli dei giornali americani a proposito del piano di Trump – e alla generale copertura mediatica degli ultimi sedici mesi del conflitto israelo-palestinese – Assal Rad scrive su X: “Call it what it is”, chiamala per quello che è. Pulizia etnica.
Rad ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia del Medio Oriente presso l'Università della California, Irvine. Voce di BBC World, Al Jazeera, The Independent e altri, ha denunciato l'esistenza di un persistente pregiudizio filo-israeliano nei media occidentali. In un tweet ha corretto un titolo del Washington Post: le parole permanent displacement sbarrate in rosso, sostituite da ethnic cleansing; il nome di Benjamin Netanyahu preceduto da war criminal.
Il punto della critica è che le testate americane sono piene di bias, anche di fronte a una grossa violazione del diritto internazionale come la deportazione o il trasferimento forzato della popolazione palestinese. Parole il cui peso non grava affatto sui titoli dei maggiori quotidiani americani.
In questi titoli, Trump propone di “prendere il controllo” di Gaza, di “ricollocare” i Palestinesi. Immagina per loro un “trasferimento permanente”. Il linguaggio adottato propone un ridimensionamento del crimine, suggerisce una lettura più morbida, più accogliente, e riporta ad un orizzonte di senso dell'ammissibile. Anche se poi il contenuto dell'articolo va a esplicitare l'illegalità del piano.
Come si legge qui e qui, il New York Times non si fa problemi a scrivere: “l'idea di Trump secondo cui gli Stati Uniti prenderanno il controllo di Gaza e reinsedieranno la popolazione ha suscitato una diffusa condanna internazionale, con alcuni critici che l'hanno paragonata a una pulizia etnica. Secondo gli esperti, la deportazione o il trasferimento forzato della popolazione civile costituisce una violazione del diritto internazionale e un crimine di guerra”. Il problema di queste affermazioni, tuttavia, non è solo che nel titolo, e dunque nell'incorniciamento iniziale della notizia, le parole “pulizia etnica” e “crimine di guerra” non compaiono, ma anche e soprattutto che la responsabilità di tali enunciazioni viene attribuita ad altri, a un generico “gli esperti”, o ad “alcuni critici”, al contrario di presentarle come un'indiscutibile presa d'atto delle reali intenzioni del presidente Trump.
In questo senso Assal Rad insiste: chiamatela per quello che è, chiamatela col suo nome. Il trasferimento forzato di una popolazione è illegale. I Palestinesi sono stati intimati di andarsene. Trump ha detto loro che, se sarà necessario, li scorterà via con le truppe. Poi, tornando su stesso: no, non ce ne sarà bisogno, i Palestinesi non vorranno tornare. Gaza è un inferno in terra – non dice chi ha reso Gaza un inferno: l'esercito israeliano, con il sostegno del governo degli Stati Uniti. “Perché dovrebbero tornare?”, ha detto il Presidente, come si legge sul Washington Post. Sul quotidiano il piano di Trump è presentato come una “proposta”. Di certo a Netanyahu e non ai Palestinesi. Un suggerimento al leader israeliano di “rimozione permanente da Gaza di 2,2 milioni di Palestinesi da insediare fuori dalla loro terra”. Posto che l'uso di “rimozione” è deumanizzante e opera, nella percezione del lettore, la negazione dell'identità dei Palestinesi, c'è una parola precisa per descrivere centinaia di migliaia di persone escluse con la forza e trasferite al di fuori del loro territorio: deportazione.
Sul Wall Street Journal, il tentativo di porre il piano di Trump all'interno di una cornice di ammissibilità è ancora più feroce. Non solo non è "deportazione", ma "ricollocamento". Per di più si legge in questo articolo che l'accusa da parte della comunità internazionale di star commettendo un crimine di guerra è il risultato di un “doppio standard del mondo nei confronti di Israele” poiché “nel corso dell'ultimo secolo si sono verificati molti trasferimenti di popolazioni”.
Chiamare le cose con il loro nome è spaventoso. Impone di guardare la realtà dritto negli occhi, di assegnare responsabilità. In certi casi, di alzare la mano e pronunciarsi colpevole. Tuttavia, il ruolo della stampa è quello di dire le cose come stanno, di chiamarle con il loro nome. Anche se è necessario superare un intero sistema mediatico inquinato da bias.