La crisi infinita dell'informazione americana
Tornano i sindacati nelle newsroom, ma la situazione generale dell'informazione è pessima, tra crisi, licenziamenti e chiusure. Nemmeno Bezos sembra avere più la bacchetta magica.
Erano le 4:45 del 1° ottobre 1975 e Katherine Graham fu svegliata da una telefonata. Il suo giornale, il Washington Post, non sarebbe uscito quel giorno. I lavoratori avevano sabotato le macchine da stampa. Cominciava uno dei più famosi scioperi della storia dei media americani, quello del Newspaper and Graphic Communications Union.
Da qualche anno i malumori tra la direzione del quotidiano e i sindacati di giornalisti, reporter e stampatori si trasformavano in scioperi e trattative ferrate a ogni scadenza di contratto collettivo. Il mondo del giornalismo stava in effetti cambiando. Molti editori stavano trasformando i giornali da imprese familiari a società quotate, incluso il Washington Post nel 1971. Questo aggiungeva la pressione degli azionisti nei confronti della dirigenza. Generare profitto non bastava, serviva mantenerne stabile il tasso nel medio periodo al fine di non perdere la fiducia del mercato. Il +9.1% del 1974 era molto più basso del +15,1% del 1969. Questo significava tagli e cambio della gestione del giornale.
Il modo in cui Graham gestì lo sciopero, ampiamente pronosticato dalla dirigenza, che aveva cominciato a prepararsi anni prima, segnò un’epoca. Anche grazie all’esagerata enfasi sul danno alle macchine del 1 ottobre, la spaccatura creatasi tra i vari sindacati (Bob Woodward forzò il picchetto di persona, in solidarietà con l’editore) diede alla cosiddetta Gran Dama di Washington l’occasione di spezzarne il potere. Furono assunti nuovi stampatori e il giornale tornò in circolazione quasi subito anche grazie ad accordi con competitor e trovate entrate nel mito: ad esempio, per qualche giorno, per superare il picchetto degli scioperanti, venne usato un elicottero per portare in stampa le copie del giornale.
Katherine Graham negò sempre che scardinare il potere sindacale fosse il suo fine ultimo, però ormai questa è una questione puramente accademica. La realtà è che la gestione di quello sciopero divenne una traccia per la lotta contro la sindacalizzazione dei lavoratori americani negli anni a venire. Oggi, i lavoratori iscritti a un sindacato di categoria sono al minimo storico, pur in un contesto politico e ideologico in cambiamento sotto l’amministrazione Biden.
In ogni caso, rompere il potere negoziale dei lavoratori non garantì al Washington Post un futuro radioso di profittabilità. L’arrivo di internet gettò tutti i giornali tradizionali in crisi, con molti editori ormai incapaci di trovare la formula vincente per, detta in parole povere, fare i soldi con l’informazione. Questo vale sicuramente ancora oggi. Nel 2013 il giornale di punta della famiglia Graham, che lo aveva guidato negli anni gloriosi dello scoop del Watergate e dei Pentagon Papers, fu venduto, quasi di sorpresa, a colui che forse più di altri simboleggia la nuova era dell’industria digitale, Jeff Bezos, fondatore e proprietario di Amazon.
In una riunione nei giorni successivi tra lui e i suoi nuovi impiegati, li incoraggiò a non avere paura, di “sperimentare col digitale, sfruttando i vantaggi derivanti dai doni di internet”, che hanno garantito il successo del più grande mercato online del mondo. Per alcuni anni è sembrato funzionare. La strategia di una pesante presenza online, a imitazione di altre grosse pubblicazioni mainstream come il New York Times, ha rilanciato il giornale come non avveniva da anni, portandolo addirittura al profitto nel 2019. Il merito di questo rilancio è di dubbia attribuzione. L’executive editor Martin Baron, che ha coperto la posizione fino al 2021, poté sicuramente sfruttare tre aspetti, che in parte lo avevano aiutato anche al Boston Globe e al Miami Herald. Per prima cosa l’appoggio di una proprietà disposta a fare investimenti seri su personale e spazi di pubblicazione. Secondo, il fatto che dopotutto il giornale continuava ad avere firme di qualità alle quali fu garantita la piena indipendenza. Ultimo, l’effetto Trump.
Non è sottovalutabile quanto il rinnovato interesse per la lettura dei giornali inquadrabili come liberal, principalmente online, sia andato a coincidere con l’ascesa di colui che più di tutti incarna quel conservatorismo della rabbia e quella estremizzazione che ormai sono il motivo d’essere del GOP. La copertura degli scandali, delle decisioni, delle influenze grigie dell’amministrazione Trump ha trainato come poco altro prima d’allora la popolarità di alcuni grandi giornali come anche New York Times, consolidando la loro leadership e portandoli al profitto. Questo è provato anche dal fatto che, finita l’era Trump, l’incantesimo si è spezzato.
Gli abbonamenti al Washington Post nei primi mesi del 2021 sono crollati da 3 milioni a 2,5, è tornato il debito, la crisi, la fuga di talenti e la necessità di forti tagli. Con questi è tornato un vecchio fenomeno: il conflitto sindacale. Nell’agosto 2023, 750 membri della Washington Post Guild hanno circondato la sede del giornale per chiedere l’adeguamento dei contratti a un editore, Bezos, abituato a trattare i sindacati come acerrimi nemici di cui ostacolare la formazione a tutti i costi. Tuttavia, a dispetto dell’azione degli editori, sindacati del settore continuano ad attrarre membri in tutto Paese in giornali e magazine come Los Angeles Times, Chicago Tribune, Slate, Vice, Huffington Post, POLITICO, The Atlantic, Esquire, The New Yorker, Washingtonian, e altri. Tuttavia, il successo nel breve termine delle negoziazioni contrattuali, come nel caso del Washington Post dopo sei mesi di tira e molla, non garantisce nulla sul lungo periodo.
L’industria dell’informazione rimane infatti in piena crisi come mai prima d’ora. La ricetta che per qualche anno ha riportato il Washington Post al profitto, tra Trump Bump e immissione di contante del terzo uomo più ricco al mondo, non sembra applicabile altrove. Nel 2023 giornali grandi e piccoli hanno tagliato 2700 posti di lavoro. Time Magazine ha subito 30 licenziamenti solo a gennaio di quest’anno, mentre Condé Nast ha proposto un taglio del 5%, scatenando uno sciopero. Sports Illustrated, leader per decenni del giornalismo sportivo, potrebbe chiudere definitivamente nei prossimi mesi. Il Los Angeles Times, il più grande giornale a ovest di Chicago, acquistato nel 2018 da un altro miliardario, Patrick Soon-Shiong, sembrava intraprendere la stessa strada del Post, con l’ambizioso obiettivo di raggiungere 5 milioni di abbonamenti digitali, da 150.000. Ad oggi il numero si è fermato a 300.000, con il giornale nel caos tra scioperi, promesse di tagli del 25% degli impiegati e possibilità di ritiro definitivo di Shiong. Persino i network televisivi non se la passano bene. CNN, dopo aver annunciato nel 2021 in pompa magna un servizio di streaming chiamato CNN+, con programmi originali, documentari e live news, 300 milioni di investimento e l’ingaggio di nomi importanti della televisione americana, ha dovuto chiudere le operazioni nel giro di due mesi. Una sua versione ridotta sulla piattaforma MAX è stata lanciata a settembre, focalizzandosi sui programmi live.
Come disse Rupert Murdoch (proprietario, tra gli altri, del Sun, Times, Sunday Times e Wall Street Journal) nel 2005, i giornali sono «fiumi d’oro. A volte vanno in secca». La circolazione, tra copie cartacee e sottoscrizioni digitali, è ai minimi storici tranne che per alcuni - tra tutti, il New York Times, contando però anche i giochi come Wordle e la sezione Cooking -, mentre i profitti da pubblicità in totale sono crollati sotto i 10 miliardi. Per fare un paragone, Google guadagna 76 miliardi di dollari solo dalla pubblicità.
In un periodo in cui la stessa democrazia americana è minacciata da polarizzazione estrema e disinformazione, uno dei suoi pilastri, l’informazione, non sembra essere più in grado di tenersi in piedi da solo. Con il numero di giornalisti, reporter, editorialisti e freelance in caduta libera del 60% dal 2008, il gran ritorno dei sindacati nelle newsroom potrebbe coincidere con una spirale senza fine di chiusure e fallimenti.