La campana di vetro
Sullo sfondo di un’America borghese e perbenista, la poetessa Sylvia Plath parlava di malattia mentale, anticonformismo e morte, diventando punto di riferimento di un’intera generazione.
Era uno dei motivi per cui non intendevo sposarmi. L’ultima cosa che desideravo era la «sicurezza assoluta» ed essere il punto da cui scocca la freccia l’uomo. Io volevo novità ed esperienze esaltanti, volevo essere io una freccia che vola in tutte le direzioni, come le scintille multicolori dei razzi del 4 luglio.
p. 70
Il prossimo 27 ottobre, Sylvia Plath avrebbe compiuto 90 anni.
Invece, si è suicidata circa un mese dopo la pubblicazione del suo romanzo “La campana di vetro”, nel febbraio del 1963. Aveva 31 anni ed era una poetessa americana.
Pubblicato in America soltanto nel 1971 per volere della madre e dell’ex marito Ted Hughes, il romanzo semiautobiografico di Sylvia Plath venne considerato un libro di culto per un'intera generazione, una sorta di Giovane Holden per ragazze in cui finzione e realtà si alternano sapientemente facendo emergere i temi dell’anticonformismo, della malattia mentale e della morte.
La protagonista è Esther Greenwood, alter ego dell’autrice, una brillante e promettente studentessa di provincia vincitrice di una borsa di studio in una nota rivista di moda newyorkese. L’ambiente sofisticato, ma contestualmente caotico e asfissiante della città, finisce per strangolarla, costringendola a oscillare pericolosamente tra il fascino della morte e la rassegnazione alle atroci cure psichiatriche dell’epoca.
Con il passare del tempo, il senso di oppressione sempre più violento, generato da quella stessa “campana di vetro” che avrebbe dovuto proteggerla, si trasforma in una trappola che le toglie il respiro.
Soffocanti distorsioni
L’aria della campana di vetro mi premeva intorno come bambagia e io non avevo la forza di muovermi.
p. 153
Nata a Boston nel 1932, Sylvia Plath concepisce e ambienta il suo unico romanzo negli anni Cinquanta, in pieno Maccartismo. È un’America borghese, spietata e perbenista quella che si sviluppa intorno alla protagonista dell’opera. Tutti gli elementi della società - la famiglia, l’università, i manicomi o fabbriche della follia - diventano “soffocanti distorsioni” che contribuiscono a costruire quella ragnatela che incastra e fagocita chiunque non sia conforme alle aspettative o non rispetti il copione. Chiunque non si possa considerare “normale”.
Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo.
Un brutto sogno.
Io ricordavo tutto.p. 196
Nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta, Esther viene travolta dall’importanza del successo (una ragazza perbene deve raggiungere determinati risultati negli studi e in società), dall’importanza della verginità (un tesoro da proteggere a qualunque costo) e dall’importanza del matrimonio (sacro vincolo, nonché prova della realizzazione e della completezza di una donna).
Mogli e madri perfette
Il ruolo della donna negli anni della Guerra Fredda era in primis quello di moglie e madre perfetta e, sebbene alcune professioni fossero state aperte anche alla componente femminile della popolazione, una donna lavoratrice era sempre vista con sospetto e diffidenza.
Esther rifiuta i convenzionali modelli femminili, non li riconosce, arriva persino a dire che i bambini le fanno orrore ed è convinta di volersi dedicare unicamente alla scrittura e alla sua carriera, mentre il mondo intorno a lei si aspetta che voglia sistemarsi e formare una famiglia. La sua dedizione allo studio viene addirittura derisa dalle compagne di università che iniziano a rispettarla solo quando scoprono che frequenta un ragazzo “di buona famiglia” che la porterà al ballo di Yale. La pressione tra il voler essere se stessa, diventando una intellettuale di successo, e il desiderio di rendere felici gli altri come sposa sottomessa, la porta alla follia.
Per Plath, a differenza degli uomini, la donna resta sempre inevitabilmente bloccata in un solo ruolo e chi, come lei, vorrebbe abbracciarli tutti è costretta a soccombere. Non sa che si può essere contestualmente scrittrice e madre, che la scelta è solo sua. Erano gli anni Cinquanta, certo. E oggi? A quanti compromessi bisogna scendere per avere una famiglia, coltivando la propria carriera, senza essere accusate di non essere madri esemplari? La nostra società è davvero così diversa da quella descritta nell’opera di Plath?
Siamo tutte Esther
Più si procede nella lettura e ci si addentra nei meandri della mente di questa studentessa non convenzionale, più avvertiamo uno strano senso di vicinanza e la verità è che ne siamo preoccupate. Eppure; chi è che non si è sentita come lei (o come Sylvia Plath, evidentemente) almeno una volta nella vita? Chi non ha provato la sensazione angosciante di sentirsi completamente fuori posto, insoddisfatta del proprio aspetto o dei propri risultati?
Impaurite dal costante e feroce giudizio degli altri e convinte che questi famigerati “altri” abbiano sempre la verità in tasca, cresciamo pensando di dover dimostrare in ogni momento che, in fin dei conti, ce lo meritiamo il nostro posto nel mondo, che non lo stiamo rubando a nessuno, che il nostro talento è autentico e che ne abbiamo ben più degli altri.
Quando, talvolta, come Esther, scopriamo di non essere forti come pensavamo o falliamo in qualche prova, ecco che tutto crolla. Ci sentiamo rotte e ci sembra di avere davanti un dito puntato e una voce che ci urla contro: “Te l’avevo detto”.
Lampi azzurri elettroshock
Poi i progetti cominciarono a saltellarmi per la testa come una famiglia di conigli impazziti.
p. 103
Così, quando Esther realizza che non riuscirà mai a integrarsi e si vede persino rifiutata dal corso di scrittura che voleva frequentare per diventare una scrittrice affermata, iniziano le prime crisi depressive, con le difficoltà a mantenere la concentrazione, i caratteri che si sciolgono davanti agli occhi senza che riesca a distinguerli, la mancanza di sonno e dell’energia necessaria a prendere una qualunque decisione, inclusa quella di fare una semplice telefonata. Pensa al suicidio e prova ad escogitare il modo migliore per togliersi la vita.
Era come se la cosa che volevo uccidere non fosse in quella pelle e nella sottile vena azzurra che sentivo pulsare forte sotto il mio dito, ma altrove, in un luogo più profondo, più segreto, e molto più difficile da raggiungere.
p. 123
Fino al ricovero in una serie di istituti psichiatrici. Non prima di essere stata sottoposta alla traumatica esperienza dell’elettroshock, su consiglio dell’insensibile Dottor Gordon. L’ennesima figura maschile priva di empatia.
Incominciavo a capire come mai gli uomini che odiano le donne riescono a farne quello che vogliono. Sono come dei: invulnerabili e potenti. Discendono su di te, poi scompaiono. Non li puoi catturare.
p. 90
Esther vive in luoghi angusti in cui vengono applicate rigide pratiche costrittive e riesce a stare meglio solo quando viene presa in cura da una psichiatra donna, la Dottoressa Nolan.
Sparire e rinascere
Più sei un caso senza speranza, più ti tengono nascosta.
p. 133
Esther vive nel terrore di non migliorare mai e di essere abbandonata a se stessa in qualche desolato manicomio statale, ammassata con altre centinaia di persone. Nascosta e dimenticata.
Commuove il suo desiderio di poter sparire per poi rinascere libera dai suoi fardelli: e, probabilmente, Esther-Sylvia l’ha fatto attraverso l’eco delle sue poesie.
Alla sommità del cielo brillava un sole bianco imparziale. Avrei voluto affilarmi contro di lui fino a diventare pura, sottile ed essenziale come una lama di coltello.
p. 82
Rinasce ogni giorno anche nelle pagine di questo romanzo intenso, poetico e atroce che ci fa entrare nella testa di un’autrice immensa della quale sarebbe stato davvero bello poter leggere tanto altro ancora.