Jimmy Carter, il presidente che pensava al 2024
Jimmy Carter non era molto amato dagli elettori quando era in carica. Un libro e un documentario però mostrano come il suo programma politico fosse estremamente attuale.
Se la sfortuna fosse un Presidente, sarebbe Jimmy Carter. Una combinazione di eventi avversi sia in politica estera che in politica interna ha reso al grande pubblico l’immagine di un Presidente-outsider non in grado di affrontare le sfide che l’America post Vietnam che cercava di trovare una nuova moralità e un nuovo equilibrio successivo alla fine dell’ordine stabilità dal New Deal rooseveltiano.
Tuttavia non era così. Un libro e un documentario usciti nell’ultimo anno hanno cercato di ricalibrare l’immagine di un Presidente – da qualche giorno novantasettenne – che era forse troppo visionario per l’elettorato degli anni Settanta.
Il giornalista Jonathan Alter ha pubblicato una biografia intitolata His Very Best, dove l’immagine del Presidente che più di ogni altro è stato rivalutato per le sue azioni post-presidenza fosse in realtà un uomo con una visione modernissima.
Un agricoltore che è stato accudito a lungo da una mezzadra della sua fattoria, quando i suoi genitori erano fuori città, e che ha citato questa persona, che si chiamava Rachel Clark come «la persona che mi ha influenzato in modo più duraturo». Una visione estremamente moderna per chi era cresciuto nel clima segregazionista della Georgia degli anni Venti: un’afroamericana analfabeta che diventa decisiva per la vita di un futuro Presidente degli Stati Uniti. La sua ascesa presidenziale è stata sorprendente: da agricoltore riluttante, che ritorna ad occuparsi della fattoria di famiglia per la morte del padre, a governatore del suo stato e infine a Presidente: il suo mix di messaggio evangelico (Carter si definisce un ‘cristiano rinato’) e di populismo rurale sembrava che fosse il messaggio vincente per i democratici. Non solo per il secolo ventesimo, ma per il ventunesimo.
In Carterland, un documentario diretto dal regista Will Pattiz, presentato ad Atlanta lo scorso maggio, ci si concentra anche su un problema al centro dell’azione globale dei governi: il cambiamento climatico. Carter ordinò la stesura di una relazione dedicata agli effetti dell’aumento della temperatura nel 2000. Non era una novità che i Presidenti ponessero attenzione all’ambiente. Un repubblicano, Richard Nixon, aveva fondato nel 1970 l’EPA, l’agenzia federale per la protezione dell’ambiente. In quel caso però la preoccupazione era relativa all’inquinamento dell’acqua e dell’aria e agli effetti che questo poteva avere sulla salute umana. Non era ancora chiaro che tutto il pianeta fosse in gioco e che quindi occorresse una revisione radicale dello stile di vita che fino ad allora rappresentava l’American Way of Life.
Questa concezione così fuori da quello che era il sentire dell’opinione pubblica venne riassunta in quello che è il più famoso discorso di Jimmy Carter, tenuto in TV il 15 luglio 1979, il cosiddetto Malaise Speech.
Nominalmente il fulcro della comunicazione era sulla necessità di ridurre i consumi energetici, ma allo stesso tempo Carter delineava altri due problemi che sarebbero poi esplosi: la distanza dei politici dalle persone comuni e la mancanza di fiducia tra cittadini. Nel discorso che Carter tenne con un tono di voce calmo, ma appassionato, questa crisi venne enunciata come urgentemente da risolvere. Ciò non accadde, anzi. L’anno successivo venne sconfitto pesantemente dal candidato repubblicano Ronald Reagan, che promise agli americani un ritorno all’antico, con la promessa di fare nuovamente grande l’America.
Nella scena internazionale, ma non solo: tornando a una prosperità massiccia. Il cosiddetto edonismo reaganiano. Quello che fa sì che gli Stati Uniti, ogni anno, superino l’Overshoot Day con largo anticipo rispetto al resto del mondo, finendo le risorse annuali intorno al mese di marzo.
L’America si innamorò di Reagan, che divenne il Presidente più popolare anche tra i “Reagan Democrats”.
La storia però, pur riconoscendo i meriti di Reagan riguardo alla sconfitta del comunismo sovietico, dovrebbe riconoscere che Jimmy Carter aveva chiaro quali fossero i problemi da affrontare nel secolo successivo. Senza però disconoscere la necessità di liberalizzare ampi settori dell’economia. Nel 1978 venne abolito il Civil Aeronautics Board che di fatto costituiva un cartello tra le maggiori compagnie aeree e si aprì l’epoca dei voli low cost ma anche per quanto riguarda una bevanda amata da molti, la birra artigianale, Carter rimosse una regola risalente all’epoca del proibizionismo che vietava la produzione su piccola scala degli alcolici.
Un progressista moderato attento al cambiamento climatico: per l’elettorato di allora era difficile da comprendere. Possiamo però affermare che le sue idee nel 2021 siano accettate da chiunque?
Gli sforzi dell’amministrazione Trump per resuscitare la moribonda industria estrattiva del carbone non fanno ben sperare in questo senso.
Carter, ancora una volta, ha bisogno di essere riscoperto dall’opinione pubblica, per non dover rimpiangere troppo tardi quello che lui aveva già capito più di quarant’anni fa.
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