Jim Thorpe, vite come la sua
Un libro racconta la storia di un atleta prodigioso che ha incarnato il sogno e l’incubo americano.
Di storie come quella di Jim Thorpe ne esistono molte, soprattutto negli Stati Uniti: un uomo povero, venuto dal niente, ma dotato di talento, forza e determinazione tali da riuscire a ribaltare la propria condizione sociale e a cambiare per sempre la propria vita.
È il sogno americano, a lungo ossessione del regista Billy Wilder, che dalla vecchia Europa sfuggì all’ascesa di Hitler: ingannato dallo scintillio, che dall’altra parte dell’oceano pareva irresistibile, imparò un’amara lezione, ossia che non può esistere bagliore senza ombra.
Se a raccontare la vita di Jim Thorpe fosse stato proprio Wilder, lo avrebbe trasformato in un eroe dolente in bianco e nero, descrivendone l’ascesa e il declino, la bontà e la fermezza, le ingiustizie subite nel mondo sportivo e il breve, quanto surreale ingresso a Hollywood. A portare sul grande schermo le imprese di questa leggenda dello sport mondiale, fu invece il regista Michael Curtiz, nome che in pochi accostano all’immortale Casablanca. Come attore protagonista di Pelle di rame (in originale Jim Thorpe-All-American) Curtiz scelse, nel 1951, un giovane e imponente Burt Lancaster, reduce da un film di denuncia sociale sulle violente repressioni carcerarie (Forza bruta, 1947) e ancora lontano dalla consacrazione della maturità che gli regalò anni dopo Luchino Visconti; grazie alla sua fisicità, nel 1953, interpreterà di nuovo un nativo americano in L’ultimo apache di Robert Aldrich.
«Thorpe rimane il paladino di un’umanità nell’ombra, capace di essere apprezzato anche da chi gode della piena luce» scrive Tommaso Giagni nella biografia Afferrare un’ombra. Vita di Jim Thorpe uscita per minimumfax.
Di storie come la sua ne esistono molte, ma a renderla diversa è il fatto che questo atleta eccezionale che collezionò due ori alle Olimpiadi, rappresentò non solo il sogno, ma anche l’incubo americano.
Come precisa Tommaso Giagni, il suo vero nome non era Jim Thorpe, ma Wa-tha-sko-huk, che in lingua Sauk significa Luce dopo il fulmine: per i bianchi solo una serie di suoni esotici e impronunciabili, che cambieranno ogni volta che ne avranno l’occasione. La madre, cattolica, lo battezza Jacobus Franciscus. Anche sul luogo e sulla data di nascita ci sono informazioni contrastanti: quel che è certo (ammesso che esista qualcosa di sicuro nella vita di Thorpe) è che nacque nel 1887 in Oklahoma e che fin da piccolo si appassionò alla caccia, alla pesca e ai cavalli. Non ebbe un’infanzia felice, come ricostruisce minuziosamente lo stesso Giagni: a 9 anni perse suo fratello gemello George. Da quel momento «diventò taciturno. Andava in giro da solo con un vecchio cane. I cani continueranno a esserci nella sua vita adulta: arriverà a cucinare personalmente per loro». Non tornò più alla Sax and Fox Indian Agency School, troppo doloroso visto che ci andava con il fratello. Proprio la scuola fu un elemento determinante: non era un bravo studente, anzi, ma ben presto incrociò il destino riservato a molti come lui, la Carlisle Indian Industrial School, uno dei tanti istituti che sorgevano negli Stati Uniti nei primi anni del Novecento con uno scopo preciso, assimilare la cultura dei nativi e creare dei nuovi cittadini, il più possibile somiglianti all’ideale americano (qualsiasi cosa volesse dire): «Bambini e ragazzi precipitati lontano da casa, marchiati con un nome e cognome da statunitensi – un’identità nuova».
È in questo clima che Thorpe inizia a muovere i primi passi nel mondo sportivo e a dimostrare le sue doti quasi sovrumane che lo porteranno a vincere due ori alle Olimpiadi del 1912 rispettivamente nel Pentathlon e nel Decathlon: a Stoccolma, racconta Giagni, in una camera di periferia, poco prima di essere premiato dal re Gustavo V di Svezia, scriverà una lettera alla sua fidanzata di allora, Iva Miller. Tuttavia, il momento più bello della sua vita venne rovinato dal ritiro delle medaglie: la regola per partecipare ai Giochi è non essere un atleta professionista, ossia non dover vivere di sport, non percepire alcun compenso; Thorpe, invece, rompe il tabù: ha accettato l’ingaggio con varie squadre di football e baseball per fare ciò che sa fare meglio, giocare, divertirsi e sopravvivere. «Non ero pratico delle cose del mondo e non mi sono reso conto di sbagliare», scriverà in una lettera ufficiale di scuse, puntando i riflettori su uno dei suoi tratti più conosciuti: l’ingenuità. Comincia così a delinearsi il ritratto del gigante buono e innocente, imbattibile sul campo, ma fragile nella vita: è attraverso questa narrazione che gli americani, i bianchi, sembrano riuscire ad accettare ciò che percepiscono estraneo o minaccioso. L’indiano, il “pellerossa”, non può che essere mite se vuole ritagliarsi un posto nell’olimpo degli eroi, come ci ha insegnato il regista Miloš Forman, quando nel film Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) assegnò il ruolo da deus ex machina proprio a un nativo, Capo Bromden, interpretato da Will Sampson (anche lui originario dell’Oklahoma). Jim Thorpe sembra incarnare perfettamente entrambi gli archetipi: il gigante buono, taciturno, onesto nei confronti di ciò che conta, che usa la forza non per prevaricare gli altri, ma per combattere contro le ingiustizie e costruirsi uno spazio, una casa, senza, però, disturbare troppo il vicinato: una colpa, quest’ultima, imperdonabile, come racconta anche Martin Scorsese nel suo ultimo film Killers of the Flower Moon, che ha per protagonisti proprio dei nativi americani in Oklahoma. Il grande peccato di Thorpe, sfuggente tanto nella vita quanto in campo è, però, non aderire mai fino in fondo a questa doppia narrazione: il suo sogno di un’esistenza tranquilla, di una casa immersa nella natura, di un’american way of life, si scontra con la povertà. Una povertà che non è una malattia, piuttosto il sintomo di un rapporto incostante con il denaro: ai momenti di benessere e generosità, seguono periodi in cui frugare nelle tasche in cerca di centesimi. Una tentazione irresistibile per i giornali, che cancellano il ritratto dell’indiano buono per sostituirlo con quello del nativo che vive ai margini, incapace di gestire la ricchezza, bisognoso di una guida.
«Correva semplicemente con una furia selvaggia, mentre i cadetti cercavano invano di fermare la sua avanzata. Era come cercare di afferrare un’ombra», scrisse il New York Times durante una partita di football del 1912 che lo vide contrapposto a un giovanissimo Eisenhower. Non è un caso che Tommaso Giagni abbia scelto proprio questo passaggio per il titolo del suo libro: il grande merito di raccontare vite come quella di Jim Thorpe, è far luce sui tanti momenti oscuri che hanno caratterizzato gli Stati Uniti, sulla violenza, sul razzismo nei confronti dei nativi e non solo. Se c’è un limite in questa biografia, è che tra i tanti avvenimenti, i fatti e le persone, non si riesce a scorgere un’identità precisa. Chiusa l’ultima pagina si ha la sensazione, netta, di non aver capito quest’uomo, di non essere, appunto, riusciti ad afferrarlo, ma, forse è proprio questo il suo fascino.