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Un autobus viaggia da New York a Richmond, in Virginia. Una donna nera va verso i posti assegnati alle persone della sua razza, ma scopre che i sedili sono tutti rotti. Decide di sedersi davanti, le viene detto di cedere il suo posto. La donna si rifiuta, viene presa in custodia dalla polizia e passa una notte in prigione. È una storia che conoscono tutti, quella di Rosa Parks; storia che però si svolse a Montgomery, in Alabama, nel 1955. Questa è datata 1940, e la donna di cui stiamo parlando è Pauli Murray.
La storia di Pauli Murray è paradossale, incastonata in un’epoca ancora troppo conservatrice per comprenderne appieno il pensiero, e quindi recuperata solo da poco. È la storia di una donna che non si sentiva a suo agio, che probabilmente non si riconosceva nel sesso assegnatole alla nascita, ma che ha combattuto una vita per l’emancipazione. È la storia di una persona poco incasellabile, né tra i grandi afroamericani della March on Washington in quanto troppo donna, né tra le femministe della Rivoluzione Sessuale in quanto troppo diversa dallo standard femminile, e più vicina agli umili, né tra i socialisti, perché si riteneva una persona di Fede e imperniava sulla religione la sua proposta politica, e per questo motivo è stata abbandonata dalla storiografia.
Murray nacque nel 1910, col nome di Annette Pauline, perse entrambi i genitori molto presto e crebbe con una zia a Durham, in North Carolina. Sarebbe potuta entrare senza troppi patemi al North Carolina College for Negroes, ma voleva andare a University of North Carolina. Venne rifiutata, perché non si accettavano neri all’epoca in un’università così importante del Sud. Andò quindi in un college femminile a New York, Hunter, e lì visse in piena Harlem Renaissance. Conobbe protagonisti di quella che fu la cultura afroamericana del primo Novecento, da Langston Hughes, che avrebbe poi raccontato la Guerra Civile Spagnola, al già famosissimo fondatore di NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), W.E.B. Du Bois. Si avvicinò solo per un breve periodo ai movimenti socialisti, essendo da sempre molto più interessata alla Fede: parte del suo pensiero civile viene definito dagli studiosi democratic eschatology, cioè l’idea che l’armonizzazione sociale si sarebbe raggiunta in modo salvifico non con l’afflato rivoluzionario, ma con la piena riscoperta dei valori democratici che venivano negati.
Nel 1942 ebbe un dialogo epistolare persino con Eleanor Roosevelt, nel tentativo di fermare la condanna a morte di Odell Waller, uno sharecropper vessato (condizione economica dei contadini assimilabile alla mezzadria ndr) che aveva ucciso il suo padrone bianco. Si interessò talmente tanto del caso che volle andare a studiare legge: venne presa ad Howard, la storica università nera. Questo dovrebbe essere il momento perfetto della vita di Pauli: ha capito cosa fare della sua vita, e si ritrova negli anni ’40, quando la condizione afroamericana è in pieno fermento e si stanno ponendo i semi della rivolta, nel luogo dove l’intellettualismo nero si fonda. In quella classe, però, è l’unica donna: per questo conierà il termine famoso – e che l’ha contraddistinta anche nel titolo della monografia a lei dedicata dalla storica Rosalind Rosenberg – Jane Crow. Se Jim Crow rappresentava il simbolo dell’inferiorità nera rispetto al bianco, Jane è un grado ancora più basso; se essere neri significa vivere in una condizione di subalternità, ed essere donne pure, essere donne nere voleva dire combattere contro un doppio sistema discriminatorio, che si sarebbe costantemente presentato in un modo o nell’altro. Quando Murray volle migliorare i suoi studi in legge ad Harvard venne rifiutata, non in quanto nera, ma in quanto donna: rispose al diniego chiedendo come fosse possibile modificare il genere a lei assegnato dal caso, perché lei non lo sapeva. In quel periodo già frequentava donne, le più femminili possibili, e si interrogava su quale potesse essere l’esperimento naturale che aveva portato un cervello maschile in un corpo femminile.
Andò a Berkeley, che le donne le accettava, e poi si trovò nella difficoltà di trovare un lavoro all’interno del settore legale sempre per il suo genere; una tematica che abbiamo potuto vedere anche sul grande schermo, in un biopic – piuttosto dimenticabile, a dire il vero - sulla vita della giudice americana Ruth Bader Ginsburg, “On the Basis of Sex”.
Murray però non ha la stessa determinazione per l’ingresso nel mondo legale di Ginsburg e, dopo aver collaborato con i metodisti nella scrittura di un lungo tomo sulle leggi di segregazione, va in Ghana qualche anno. Al suo ritorno il movimento per i diritti civili aveva preso forma e si era entrati nella stagione delle richieste: in questo periodo incrociò la strada con quella che – al tempo – era considerata la più grande femminista americana, Betty Friedan, autrice di “The Feminine Mystique”, e contribuisce alla creazione della National Organization for Women.
Continuò però a non sentirsi a suo agio, e questo perché – come brillantemente analizzato da un articolo di Kathryn Schulz sul New Yorker – odiava la frammentazione e la costante categorizzazione. Proprio lei, che era donna, afroamericana, e sentiva dentro di sé problematiche col genere assegnatole, (scrisse molto poco di questo, principalmente appunti personali) rifiutava lo spacchettamento delle istanze, il concetto di identity politics: mal sopportava il movimento afroamericano, formato da grandi sindacalisti come Randolph che agitavano le piazze e lasciavano le mogli nelle altre stanze quando dovevano discutere, mal sopportava il movimento femminista che – come ci ha raccontato Vittoria Loffi, studiosa di questioni di genere – utilizzava il fermento emancipatorio dell’indipendenza economica come veicolo della classe maggioritaria, un movimento che aveva interesse solo nella progressione carrieristica delle donne già agiate, promosso anche da molti uomini perché non eccessivamente radicale, lontano da un ripensamento della società nel suo complesso. La categorizzazione per Murray era un modo di frammentare istanze universali, e non faceva altro che mettere una contro l’altra persone che già si trovavano in fondo alla scala, mantenendo agevolmente il potere della classe dominante; ed è a quel punto che Murray abbraccia la Chiesa, diventa una ministra episcopale, scrive un lungo memoir e muore nel 1985. L’accademia l’ha riscoperta recentemente, e il grande pubblico può oggi conoscerla attraverso un documentario uscito nel 2021, My Name is Pauli Murray, perché il suo pensiero non ritorni nell’oblio.
Pauli Murray rifuggiva le categorizzazioni, come detto, per cui trovo interessante lasciarvi i riferimenti di alcune opere citate e non, anche se non per forza legati a Murray:
Film:
My Name is Pauli Murray, 2021
On the Basis of Sex, 2018
Selma, 2014
Libri:
P. Murray, Pauli Murray: The Autobiography
R. Rosenberg, Jane Crow: The Life of Pauli Murray
B. Friedan, Mistica della Femminilità
A. Davis, Donne, razza e classe