J. D. Vance è concentrato sul futuro, e questo non include più Trump
Alla luce del dibattito, non importa più se Vance sia o meno un peso per il ticket repubblicano. La sua candidatura ha acquisito tutt’altro significato.
Fino a mercoledì scorso, il tema scelto per questo articolo era come la candidatura di J.D. Vance fosse stato un errore per Trump, una decisione presa in un momento, ormai storia, in cui l’avversario era un Joe Biden in evidente declino e si prospettava un’incoronazione, uno di quegli acquisti per cui si spera di aver conservato la ricevuta. Poi è arrivato il dibattito tra i candidati Vicepresidenti e Vance ci ha fatto sapere qual è per lui il senso della sua candidatura, qualcosa che aveva già anticipato nel suo discorso alla Convention Repubblicana a luglio. C’è infatti una frase che dice molto di come J.D. Vance vede queste elezioni, e l’ha pronunciata lui rispondendo a Tim Walz la settimana scorsa, l’unico momento che sarà (a malapena) ricordato del dibattito: «Sono concentrato sul futuro».
Sono stati i suoi peggiori due minuti, in cui Walz ha trovato la punchline che stava cercando dopo una serie di scambi cordiali e dimenticabili che, almeno in apparenza, ci hanno riportato all’atmosfera dei dibattiti pre-Trump (è stato carino guardarne uno che non citasse Hannibal Lecter). La domanda era: «Trump ha perso le elezioni del 2020?». La non risposta di Vance non rivela soltanto la sua intenzione di non dire la verità, ma soprattutto quella di non riproporre la bugia di Trump, cioè che le vittoria nel 2020 gli sia stata rubata. Visto che Trump probabilmente ha visto pezzi del dibattito solo per controllare quante volte il suo nome venisse citato, forse questa cosa gli è sfuggita.
Dopotutto The Steal è stato il mito fondativo del ritorno dell’ex Presidente come candidato nel 2024, una sua vittoria vendicherebbe il tentativo non riuscito di sovvertire il risultato elettorale scorso durante l’assalto al Congresso il 6 gennaio 2021. Uno dei motivi per cui Mike Pence non era sul palco martedì scorso è proprio perché non partecipò all’operazione Stop the Steal, anzi era uno dei target. Vance non ha fatto da megafono alla retorica violenta di Trump, non ha riproposto teorie su come i Democratici programmano di rubare di nuovo il risultato elettorale, non ha neanche ripetuto le sue dichiarazioni precedenti in cui disse che non si sarebbe comportato come Pence in quel fatidico giorno, cioè, certificando il risultato come previsto dalla Costituzione.
Possibile che il ticket Repubblicano non sia in sincrono? Possibile che dopo una delle più strabilianti trasformazioni politiche degli ultimi anni Vance abbia deciso che no, ci sono cose che non concederà a Trump? La risposta è forse di nuovo nella frase “sono concentrato sul futuro”, un futuro che, Vance lo sa, non include Trump e la sua incapacità patologica di ammettere una sconfitta. Quel futuro non comincia nel 2024, ma nel 2028 e non ha bisogno della versione di sé che Vance ha offerto fino ad ora, il candidato che senza alcuno scrupolo inventa storie assurde per istigare la rabbia dell’elettorato. Nessuna menzione delle gattare senza figli, o di immigrati haitiani che mangiano animali domestici.
Mezze verità sì, ma non così sguaiatamente evidenti. Era civile, pacato, articolato, persino empatico nei confronti del suo avversario. «Dobbiamo fare di più per guadagnarci la fiducia del popolo americano a riguardo (dell’aborto n.d.r.)». Dov’è il J.D. Vance che usò la parola “inconvenient” per descrivere una gravidanza frutto di stupro o incesto? È ancora lì, ma è concentrato sul futuro. Un futuro in cui Vance non è quello che parla nei podcast MAGA o che compare su Fox News, che cita «donne in post-menopausa» e parla del «periodo tardo Repubblicano» che bisogna combattere «essendo feroci, andando in direzioni con cui molti conservatori non sono a loro agio». Un Vance che comunque dice molte cose false, tipo che Trump ha salvato Obamacare, ma che le fa sembrare ragionevoli e verosimili.
Due anni fa proprio su Jefferson avevamo descritto la sua trasformazione in candidato trumpiano come una dimostrazione di come il conservatorismo compassionevole dell’era Bush avesse lasciato spazio al conservatorismo della rabbia, con l’elettorato bianco e religioso diventato una folla da vendicare e a cui dare un nemico da combattere, causa di tutti i mali, veri o percepiti. Un conservatorismo che si nutre di una certa mitologia di classe aiutato proprio da una lettura storpiata di testi come Hillbilly Elegy. Ecco, forse siamo testimoni ora della trasformazione finale dell’autore di quel bestseller. L’uomo che si umiliò per ricevere l’agognato endorsement del leader del movimento MAGA, che una volta chiamò “l’Hitler d’America”, martedì non ha citato quella sigla neanche una volta. Tra le frasi deferenziali di rito usate per Trump, è emersa forse un’idea di quello che sarà il Partito Repubblicano una volta archiviato questo capitolo della sua storia. Un conservatorismo della rabbia non sguaiato e urlato, ma articolato e scaltro, forse per questo ancora più pericoloso e attraente per l’elettore moderato e disattento, capace di far sembrare anche le idee più controverse come frutto di buon senso.
Di certo la performance non ha fatto nulla per aiutare le fortune elettorali del ticket, anzi potrebbe riportare l’attenzione dei media sui punti deboli di Trump in quest’ultimo mese di campagna (il 6 gennaio 2021, l’aborto, l’accesso alle cure sanitarie). Di sicuro però aiuterà a plasmare, nella mente di molti nel partito, e di megadonor come Thiel, l’idea di J.D. Vance, tornato quello del suo discorso alla convention, come un possibile candidato nel 2028 o 2032. Trump avrà anche qualche rimpianto sul non aver scelto qualcuno che gli portasse qualche voto in più in Pennsylvania e Georgia, Vance invece non è preoccupato. Il suo viaggio dall’anti-trumpismo al trumpismo più fedele al post-trumpismo è concluso. Ora è il momento di concentrarsi sul futuro.