Il voto che ha cambiato il Partito Repubblicano: l'elezione di Ronald Reagan
Allo scoccare del 1980, Reagan fa il suo ingresso alla Casa Bianca, consolidando un cambiamento da lungo in atto nel mondo dei conservatori statunitensi
Con l’elezione di Ronald Reagan a Presidente degli Stati Uniti nel 1980, il Paese si è tinto di rosso, registrando anche la conquista Repubblicana del Senato per la prima volta in 28 anni.
La “Reagan Revolution” sembra essersi definitivamente sprigionata dalla semplice domanda posta da Reagan agli elettori durante un dibattito con il candidato Democratico - all’epoca Presidente uscente - Jimmy Carter, «state meglio ora di quattro anni fa?». Una performance elettorale che gli guadagnò la sicurezza di una vittoria schiacciante a dieci giorni dal voto, risultando in 489 voti elettorali rispetto ai 49 vinti da Carter.
A oggi, tuttavia, una domanda che forse per troppo tempo ha trovato risposte eccessivamente sempliciste e quasi tautologiche, rimane tutta da approfondire adeguatamente: come si è arrivati a un tale risultato? Quali fattori hanno spianato la strada di Roland Reagan verso il 1600 di Pennsylvania Avenue?
Per provare a inquadrare le ragioni dell’ingresso di Reagan alla Casa Bianca è necessario tornare indietro a una precedente tornata elettorale, quella del 1964, che ha visto la sconfitta del candidato Repubblicano Barry Goldwater e la conseguente vittoria del Democratico Lyndon Johnson. Un evento - quello della mancata elezione di Goldwater - che per molti ricercatori esperti della storia conservatrice statunitense ha segnato l’avvio di una rivoluzione ancora più importante di quella Reaganiana, ovvero la Rivoluzione conservatrice.
Secondo gli storici David Farber e Jeff Roche, il cambiamento trasformativo affrontato dal conservatorismo negli anni sessanta ha impattato su «un numero sufficiente di elettori della classe media e operaia affinché le opinioni di Reagan, e il conservatorismo in generale, si affermassero nel panorama politico americano». È, infatti, nella tornata elettorale del 1966 che Ronald Reagan conquista la sua prima carica, venendo eletto a Governatore della California.
Il nuovo conservatorismo emerso negli anni sessanta va inquadrato come un fenomeno indipendente dagli eventi che hanno contribuito a caratterizzare tale decennio come prevalentemente liberale e culturalmente di sinistra: non si tratta, infatti, di una reazione contro la “Nuova Sinistra” incentrata sulla lotta per i diritti civili e le proteste anti-Vietnam, ma piuttosto di «uno sviluppo che risponde alla crescita del comunismo internazionale, alla globalizzazione e alle mutevoli dinamiche dell'influenza americana all'estero».
La “Grande Società” riformista del Presidente Johnson sembra aver contribuito ad alimentare una sensazione di disagio in un’ampia fetta della popolazione statunitense - prevalentemente appartenente alla classe media bianca - risultando in una rivalutazione della fiducia dapprima confidata nelle politiche liberali, soprattutto alla luce di un presunto decadimento morale che avrebbe condotto a crescenti intrusioni governative nella vita di molti americani della classe media operaia e con l’unico scopo, come illustrano perfettamente Farber e Roche, di proteggere «irragionevolmente i neri».
È proprio negli anni sessanta che si è andato a incastrare un puzzle ideologico che fornirà poi alla Presidenza Reagan la base identitaria perfetta per coltivare una “Nuova Destra” statunitense: temi come la religione, il genere, il punitivo principio Nixoniano del law and order, il contrasto al comunismo internazionale, la paura degli effetti di un governo sempre più centralizzato sono andati via via a intersecarsi, ruotando attorno alla dimensione centrale per quello che sarà poi il conservatorismo degli anni settanta e ottanta, ovvero quella razziale. Secondo lo storico Dan T. Carter fu proprio il Governatore dell’Alabama Wallace a introdurre «una politica razziale di stampo sudista nel conservatorismo».
Fu per l’appunto la dimensione razziale a preparare il terreno conservatore e su cui la candidatura di Reagan non poteva che attecchire con estrema rapidità: furono la dimensione razziale e le azioni adottate per porre fine alla segregazione che portarono soprattutto a mettere in discussione il modo in cui il governo federale stava agendo, apparentemente in contrasto con i diritti e le prerogative dei singoli Stati; furono la dimensione razziale e il movimento per i diritti civili che fecero percepire la minaccia comunista come una questione interna e non più solo internazionale; fu la dimensione razziale che ebbe un impatto sull'economia tale che, per molti cittadini statunitensi, portò il Presidente Johnson ad acconsentire, nel 1968, a un aumento del 10% dell'imposta sul reddito; infine, fu la dimensione razziale che apparentemente spinse a un «cambiamento voluttuoso» nei costumi sessuali americani.
Re-immaginare gli anni sessanta come terreno fertile per la rivoluzione conservatrice costringe indiscutibilmente a ripensare i successivi anni settanta, per troppo tempo etichettati come un decennio schiacciato tra “due giganti” - gli anni sessanta e ottanta - e durante il quale, tutto sommato, poco si è verificato di rilevante. Negli anni settanta il deterioramento generale dell’economia, lo scandalo Watergate, il ritiro delle truppe dal Vietnam, le tensioni ereditate dagli anni precedenti che ancora animavano gli attivisti per i diritti civili e i difensori del “Profondo Sud”, contribuirono a un cambiamento radicale nella politica elettorale: Come ricorda lo storico Edward Berkowitz, dopo il 1964 - e come conseguenza dell'era dei diritti civili - i Repubblicani sconfissero i Democratici in sette delle dieci elezioni presidenziali, dopo 32 anni di vittorie Democratiche quasi indisturbate.
Gli anni settanta sono responsabili di aver forgiato una connessione - inscindibile per gli anni a venire - tra Stato e società, aiutando la destra americana a coalizzarsi in un movimento politico su larga scala. Sono, dopotutto, gli anni di formazione della Destra Religiosa (non per niente il Times Magazine descriverà il 1976 come “l’anno Evangelico”) e di ascesa di figure chiave come quella del conservatore e attivista evangelico Paul Weyrich, del già Direttore della National Christian Action Association Robert Billings, del televangelista, pastore e esponente conservatore Jerry Falwell - tutti uniti dalla volontà di “salvare l’America”.
Gli anni settanta sono anche - e soprattutto - gli anni dello scontro tra la Corte Suprema, l’Internal Revenue Service (IRS) e le scuole private che ancora portavano avanti politiche di segregazione razziale. Con la sentenza Green v. Kennedy (1970) la Corte Suprema, infatti, tolse lo status di esenzione fiscale alle scuole private che praticavano segregazione razziale, a cui fece seguito la presa di posizione del Presidente Nixon che ordinò all’IRS di applicare la decisione della Corte. Un concatenarsi di eventi che portò all’attivazione definitiva di gruppi della Destra Religiosa e della Moral Majority, a quel punto decisi a trovare un saldo punto di riferimento presidenziale per evitare ulteriori intrusioni federali nelle proprie scelte private.
Un baluardo che, sicuramente, non poteva essere rappresentato dal candidato democratico e Presidente uscente nel 1980, Jimmy Carter: ritenuto non credibile su diversi temi (sui quali Reagan spiccava come campione, come, per esempio, il tema dell’aumento del budget per la difesa a fronte della storica crisi degli ostaggi in Iran) Carter riuscì a perdere il sostegno della stessa costituency che più lo aveva supportato e rappresentata dal voto evangelico. Secondo l’esperto sondaggista Louis Field, nelle elezioni del 1980 senza il sostegno degli evangelici, Reagan avrebbe perso contro Carter per l’1% del voto popolare. La realtà storica degli eventi ha visto, invece, il 56% dei votanti identificati come cristiani evangelici sostenere Reagan. Cosa ha portato a questa trasmigrazione di voti evangelici? La sentenza Green v. Kennedy e il terrore - la cui rilevanza venne ignorata da Carter - di ulteriori intromissioni federali.
Tuttavia, è importante sottolineare come non sia stato il solo voto degli evangelici a consolidare l’ascesa di Reagan - con il quale non avrebbe vinto la Presidenza - ma fu la sua strumentalizzazione del tema dell’aborto a unire insieme cattolici, evangelici e Repubblicani così da garantirgli un livello di influenza politica senza precedenti. Sebbene Carter avesse supportato diverse proposte formulate dal Congresso in direzione anti-abortista, sarà Reagan a trasformare gli evangelici in masse di credenti in masse politiche fedeli solo al Grand Old Party.
Sarà proprio un evento - ancora più del dibattito tra Reagan e Carter - a segnare la vittoria definitiva della Casa Bianca e l’inizio di un progressivo e inarrestabile mutamento del Partito Repubblicano: il summit del 1980 dei cristiani conservatori a Dallas, in Texas. Lì Reagan tenne un discorso davanti a 18.000 evangelici riuniti nella Reunion Hall di Dallas, durante il quale si oppose con veemenza proprio all'aborto. Secondo lo storico Michael Sean Winters, l'incontro di Dallas segnò una svolta nel riconoscimento pubblico del potere degli evangelici perché: «dopo anni di esilio culturale, [...] ecco che un candidato alla presidenza degli Stati Uniti dava loro [agli evangelici] la sua benedizione», vincendoli e vincendo una volta per tutte.