Nel 2021, durante i giochi olimpici di Tokyo, la più grande ginnasta di tutti i tempi, la statunitense Simone Biles, si ritira dalla finale a squadre di ginnastica artistica dopo un punteggio al volteggio alla prima rotazione decisamente basso. Rimane a bordo pedana, indossando la tuta, incitando le compagne. Si inizia a speculare su quale sia veramente il problema, mentre circola un post su Instagram della Biles, in cui scriveva: «A volte mi sento davvero come se avessi il peso del mondo intero sulle mie spalle. I Giochi olimpici non sono uno scherzo». Poco dopo, Simone Biles si ritira completamente dalla competizione e il mondo della ginnastica trema. Biles parla di problemi psicologici, di dover prendersi cura della sua salute mentale e di soffrire, fin da prima della competizione olimpica, di twisties: il termine si riferisce a un blocco mentale che colpisce alcune ginnaste, che possono perdere controllo del proprio corpo a mezz’aria, rendendole incapaci di compiere salti e figure che sono sempre state in grado di fare. Una situazione che può avere dei risvolti tragici. «Dobbiamo proteggere il nostro corpo e la nostra mente. È semplicemente uno schifo quando combatti con la tua stessa testa. Ogni volta che ti trovi in una situazione di forte stress, vai fuori di testa. Devo concentrarmi sulla mia salute mentale e non mettere a repentaglio la mia salute e il mio benessere», ha spiegato poi Simone Biles rispondendo anche alle polemiche e a commenti di media e tifosi non proprio solidali. Da lì, la ginnasta originaria dell’Ohio è sparita dai radar.
Ci abbiamo messo un po’ a rivederla in azione, tornata in pompa magna a collezionare medaglie a Parigi, facendoci emozionare con la sua ritrovata forma e quello splendido sorriso di chi ama quello che sta facendo. Tuttavia, i demoni di Simone Biles sono ancora un discorso molto attuale che vale la pena affrontare. La salute mentale nello sport è una cosa seria e, nonostante gli atleti a questi livelli ci sembrino letteralmente di un altro pianeta, rimangono degli esseri umani. L’empatia e la comprensione nei confronti di coloro che siamo abituati a vedere come gente indistruttibile e dalla profondissima disciplina è un valore alto. Qui il grande ruolo della Biles, scesa dall’Olimpo dei grandi dello sport, è quello di portavoce di un mondo in cui purtroppo ci sono anche ombre, oltre le luci della gloria.
Nonostante il provato beneficio sulla salute mentale dell’attività sportiva, uno studio del 2019 [1] del Cio riportato da Athletes for Hope, gruppo fondato da atleti del passato di grande rilievo come Muhammad Ali e Andre Agassi, ha rilevato che circa il 35 per cento degli atleti soffre di qualche forma di problema psicologico. Tra gli atleti dei college americani, poi, i numeri sono ancora più alti. Tra i problemi psicologici più diffusi troviamo la depressione, l’ansia, disordini alimentari, abuso di sostanze e disturbo ossessivo compulsivo. La pressione e la competizione possono giocare un ruolo cruciale nel malessere psicofisico di un atleta e pochi cercano veramente un aiuto a causa proprio di una forma di stigma che, come ripetuto poco sopra, vuole gli sportivi come indistruttibili, perfetti e non suscettibili a questo tipo di problematiche. Anzi, numerosi studi hanno provato delle condizioni di burnout tipicamente degli atleti – un po’ come i twisties descritti dalla Biles per le ginnaste – come la sindrome da sovrallenamento (overtraining syndrome, Ots) [2], capace di causare non solo problemi psicologici, ma anche dolore fisico ed emotivo; ma ancora, forme di sindromi da stress post-traumatico (Ptsd) o problemi nella regolazione dei cicli circadiani sonno-veglia. Ci sono addirittura casi di giocatori di baseball che, a causa del burnout, non sono più in grado di lanciare la palla. Tutto questo si ripercuote poi sulla performance sportiva e, a volte, sulla salute fisica dell’atleta. Altri atleti statunitensi, come l’ex nuotatore Michael Phelps, hanno provato a portare fuori il problema della salute mentale degli atleti. Tuttavia, il vero calcio alla porta è arrivato proprio da Simone Biles che, con il suo gesto coraggioso, ha sollevato un letterale polverone che si è trasformato poi in maggiore consapevolezza e sensibilità. Addirittura il presidente Joe Biden si era complimentato con lei per il coraggio all’epoca del ritiro.
Non era nemmeno la prima volta che Biles si faceva portavoce di una battaglia simile: nel 2016 un gruppo di hacker rese pubblici i suoi risultati dei test antidoping ai giochi olimpici di Rio supervisionati dalla World Anti-Doping Agency (Wada), in cui risultava una positività al metilfenidato. Biles, difendendosi, parlò pubblicamente della diagnosi di disturbo di deficit di attenzione/iperattività (Adhd) ricevuta da bambina, condizione curata proprio con la sostanza rilevata dal test e di come la Wada concedesse agli atleti con queste necessità di accedere alle medicine. Sempre in quell’occasione, parlando dell’Adhd disse che non aveva nulla di cui vergognarsi e che non aveva paura che la gente sapesse.
Nel 2018 è stata in prima linea nel caso Larry Nassar, il medico della Usa Gymnastics accusato due anni prima di pedofilia e molestie sessuali nei confronti delle atlete, in uno degli scandali di abusi nello sport più impressionanti della storia. La Biles ha rivelato di essere stata vittima di Nassar, testimoniando davanti a una commissione del Senato e denunciando l’intero sistema per aver coperto o ignorato la pericolosità di Nassar. Sempre nel 2018, Biles dichiarò che, a seguito del trauma, aveva dovuto sostenere una terapia farmacologica con ansiolitici e un sostegno psicoterapico.
Moltissimi ora dicono che Simone Biles ha tolto quello stigma sulla salute mentale degli atleti e che il suo passo indietro di Tokyo è stato in realtà un passo avanti per tutti. L’attenzione per questo tema è così alto che si sta iniziando a fare lavoro con gli allenatori, le allenatrici e i preparatori atletici e si stanno studiando metodologie di supporto alla salute mentale degli atleti nelle competizioni e durante gli allenamenti. A tal proposito, proprio la squadra di ginnastica artistica statunitense ha arruolato tra le sue fila un simpatico golden retriever di quattro anni di nome Beacon come therapy dog, che ha fatto compagnia alle atlete per tutta la fase di qualificazione a Minneapolis. La pet therapy è stata oggetto di studi che ne hanno dimostrato l’efficacia come metodo ausiliario in soggetti che stanno affrontando cure specifiche e terapie, soprattutto nei casi di disagi psicologici. In un’intervista di qualche giorno fa, Biles ha raccontato di come, ancora oggi e in questi giorni di gare a Parigi, sia in contatto con la sua terapeuta e come ciò la stia ancora aiutando moltissimo, soprattutto per vincere.
Simone Biles ha dunque mostrato al mondo intero che va bene non stare bene e che la forza e il coraggio di un atleta stanno non tanto nel voler passare i propri limiti a tutti i costi, ma nel riconoscerli, affrontarli, riassettare la propria condizione e tornare a brillare. Questa è la lezione che questa grande della ginnastica ci lascia: portare il peso del mondo sulle spalle vuol dire anche essere un esempio non solo di prodezza fisica, ma anche di resilienza, forza d’animo, coraggio e, soprattutto, di umanità.
[1] Reardon CL, Hainline B, Aron CM, et al. Mental health in elite athletes: International Olympic Committee consensus statement (2019). British Journal of Sports Medicine 2019;53:667-699
[2] Glandorf, H. L., Madigan, D. J., Kavanagh, O., & Mallinson-Howard, S. H. (2023). Mental and physical health outcomes of burnout in athletes: a systematic review and meta-analysis. International Review of Sport and Exercise Psychology, 1–45. https://doi.org/10.1080/1750984X.2023.2225187