Il nemico dall’interno: la deriva trumpiana di Silicon Valley
La California di Newsom ha un alleato in meno: i miliardari del mondo tech hanno voltato le spalle ai democratici. Perché?

Nel 2018, in un articolo pubblicato su Wired, si affermava che con il trumpismo la Silicon Valley non aveva nulla da spartire. Il cosmopolitismo e l’utopia tecnologica che ne costituivano l’essenza erano, secondo quella lettura, impossibili da conciliare con il nazionalismo e il protezionismo della prima amministrazione Trump. Anzi, persino chi ancora era fedele al libertarianesimo che aveva ispirato il primo boom di internet avrebbe dovuto abbandonare una volta per tutte i repubblicani. Era l’anno in cui il deputato Ro Khanna, socialdemocratico alla Sanders, si ripresentava alle urne. Stravinse. La filosofia dominante nella Silicon Valley era quella dell’altruismo efficace, o del lungotermismo, per cui regnava la consapevolezza che ciò che veniva creato lì avrebbe potuto avere effetti negativi (si ricordi il dibattito sulla disinformazione esploso all’indomani di Brexit ed elezione di Trump), ed era quindi necessario studiare bene gli effetti delle nuove tecnologie.
Ebbene, siamo di fronte a un improvviso voltafaccia politico. Specialmente ai livelli aziendali più alti, negli ultimi anni si è aperta una faglia nei confronti di tutto ciò che il progressismo rappresenta. Il risultato è disorientante. Che quella lingua di terra a sud di San Francisco, stretta tra la baia omonima e le montagne di Santa Cruz, fosse popolata di personaggi bizzarri, non è certo una novità. Ma il fatto che in così poco tempo una grossa fetta di coloro che contano nella Silicon Valley sia passata con convinzione da un estremo all’altro è stato uno shock. Là dove sembrava combinarsi un matrimonio tra progresso tecnologico e valori di uguaglianza, giustizia sociale e inclusività figli della rivoluzione culturale hippy, uno dei maggiori bacini di finanziamenti per i democratici, nel 2024 si è registrato un grande afflusso di fondi verso Trump.
Musk è solo la punta dell’iceberg di una più ampia base di consenso verso la seconda amministrazione Trump che ha radici più profonde. Ci sono cause di questo fenomeno. La prima, più semplice da identificare, ha alla base un cambiamento del rapporto fra Partito Democratico e settore tecnologico. La tendenza all’accentramento in colossi aziendali sempre più simili alle “altre” multinazionali e la concentrazione di capitali sempre più esagerati hanno certamente contribuito a raffreddare l’entusiasmo dei democratici. Di fronte alla crescita dell’intelligenza artificiale e delle criptovalute, poi, l’amministrazione Biden ha elaborato una più rigida regolamentazione in questi campi. Questo ha causato grande preoccupazione nella Silicon Valley e non solo. Ecco che personaggi come Marc Andreessen e Ben Horowitz, imprenditori di venture capital, sono passati da votare Clinton nel 2016 a sostenere attivamente Trump nel 2024, che ha promesso di rendere l’America “la capitale mondiale delle crypto”. I miliardari della Silicon Valley sono stati persino ospitati in prima fila alla cerimonia di insediamento di Trump, segnale dell’alleanza che la nuova amministrazione vuole consolidare.
Un ulteriore elemento di disaffezione nei confronti del Partito Democratico è anche dato dagli annosi problemi della California e dall’incapacità a tutti i livelli della classe dirigente (democratica) di risolverli. Il costo delle case è noto per essere proibitivo, ed è così per politiche locali che rendono impossibile modificare (leggi: aumentare) la densità abitativa di gran parte delle città. Il disagio che ne consegue è accentuato dalla presenza di un grande numero di senzatetto abbandonati a sé stessi, in preda a tossicodipendenze, spesso finiti in quella condizione proprio a causa del costo proibitivo di un alloggio. Il consumo di droga e i problemi a esso connessi sono tollerati dalle autorità, in accordo con le ultime tendenze del progressismo che mirano a non punire i crimini minori. È una politica che cerca di rimediare a un passato di incarcerazioni di massa, ma nella vita quotidiana aumenta una percezione di insicurezza e illegalità. La costruzione della prima vera linea di ferrovia ad alta velocità del Nord America, poi, che dovrebbe garantire un collegamento tra San Francisco, Silicon Valley, e Los Angeles in appena 2 ore e 40 minuti, è ormai diventata una barzelletta, impantanata com’è in ritardi nella progettazione e nella costruzione che hanno spostato a data da destinarsi l’apertura effettiva della linea. Dimostrazioni quotidiane di inefficienza che chi lavora per costruire il futuro mal digerisce.
Quello che è più peculiare è che ai ragionamenti di convenienza si è affiancato un cambiamento ideologico. I già citati Andreessen e Horowitz, ad esempio, nel 2023 hanno scritto un Techno-Optimist Manifesto, che denuncia ogni forma di ostacolo al progresso tecnologico: sostenibilità, responsabilità sociale, etica tecnologica, management del rischio, principio di precauzione. Il senso di responsabilità deve quindi essere spazzato via. La burocrazia va spazzata via. Al loro posto, gli autori abbracciano un nuovo credo: l’accelerazionismo tecnologico. Niente più AI safety, solo superintelligenza artificiale. Il fine è diventare “superuomini tecnologici”. Niente che non si sia già sentito. Nella lista dei santi patroni del tecno-ottimismo ci sono i soliti nomi che piacciono ai libertari e agli anarco-capitalisti: Pareto, Nietzsche, Hayek, Schumpeter, Friedman.
Altri nomi saltano all’occhio. Uno, a noi ben noto, è Filippo Tommaso Marinetti. È chiaro cosa significhi sul lato politico. Un altro è James Burnham, filosofo americano vicino all’elitismo, fervente anticomunista, che a partire dagli anni Cinquanta collaborerà con National Review, la rivista fondativa del filone di quel conservatorismo anti-liberal, antifemminismo e anti diritti sociali che il Partito Repubblicano inizierà ad abbracciare decenni più tardi. Spicca infine George Gilder, filosofo ed economista popolare nell Silicon Valley nei primi anni Novanta, che ha celebrato l’imprenditoria in chiave calvinistico-misogina e riproposto il mito del self made man: l’uomo-imprenditore era il vero maschio (bianco) che creava novità per il bene della sua famiglia, della società, e dell’economia americana intera, portando crescita e innovazione. Il tutto riaffermava il suo ruolo di genere. La sua influenza si fece sentire in una prima reazione in chiave anti-politicamente corretto, che affondava le sue radici nello spirito libertario dei primissimi anni Novanta. Per esempio, la rivista Upside nel 1990 pubblicò un articolo dal titolo Has Silicon Valley Gone Pussy?, che denunciava la morsa stretta da femminismo e politicamente corretto nei confronti del nascente settore tecnologico. Del resto, persino Mark Zuckerberg, che fra tutti sembrava il più convintamente progressista, ha affermato che alle aziende serve un’infusione di “energia mascolina”.
È impossibile non nominare il celebre fondatore di PayPal Peter Thiel, che quasi trent’anni fa assieme a David Sacks, suo amico e collega venture capitalist, pubblicò The Diversity Myth (Il mito della diversità), una critica feroce al politicamente corretto e al multiculturalismo nelle università. Da qui, il suo pensiero si è ancorato in un libertarianesimo radicale: a fine anni Duemila arrivò ad affermare di “non credere più alla compatibilità tra democrazia e libertà”. Che si parli della libertà dei miliardari, è chiaro. Negli anni Novanta, Thiel formò una cerchia di uomini fidati, anche politicamente, che diventeranno i più influenti di Silicon Valley: era la cosiddetta PayPal Mafia, di cui Sacks e Musk facevano parte. Nel 2016, il sostegno di Thiel alla campagna di Trump fece scalpore. Chi lo aveva criticato lo ha imitato otto anni dopo. La sua influenza a Washington, comunque, supera quella di tutti gli altri: JD Vance è stato per lungo tempo suo braccio destro e riprende molti dei temi a lui cari.
Secondo Thiel, sarebbe a causa di questa crisi della stagnazione che buona parte della Silicon Valley si sarebbe spostata verso Trump. In parte, ci sarebbe un sentimento di frustrazione nei confronti del sistema precedente, incapace di produrre “grandi cose”. La soluzione è distruggere tutto. Quindi, se la democrazia liberale non va bene, qual è l’alternativa? Dopotutto, nel manifesto di Andreessen, l’autoritarismo figura fra i nemici. La soluzione arriva dal dark enlightement di Curtis Yarvin, blogger e padre ideologico dell’alt-right che vanta contatti con Thiel e JD Vance. Proprio quest’ultimo riprese nel 2021 le sue parole (aveva coniato l’acronimo RAGE: retire all government employees), su cosa si sarebbe dovuto fare con i dipendenti federali: “Licenziarli tutti e rimpiazzarli con i nostri”. Se Yarvin non ha mai disdegnato l’idea di un dittatore soft, il vero fine è una privatizzazione completa dello Stato, affidato a un CEO-monarca. Nel 2022, teorizzò che Trump avrebbe dovuto “riavviare” il governo americano, guadagnandone così il controllo al cento per cento. Di fatto, il “riavvio” sarebbe un golpe: a Trump poi non resterebbe più potere, se non quello di andare davanti alle telecamere, perché tutto sarebbe operato dietro le quinte da un CEO con il ruolo di rimpiazzare le istituzioni con un “sistema più efficiente”. È la Butterfly Revolution, uno schema che fa impallidire il 6 gennaio.
Ad ogni modo, resta da capire quanto la Silicon Valley aderirà al nuovo regime o quanto invece sia tutta un’allucinazione di qualche fanatico terminally online. Lo stesso Musk è stato silurato, e la stretta sui visti per lavoratori high skill rischia di frenare, quella sì, la crescita dell’industria tech. Quel che è sicuro è che l’anello di unione è JD Vance, che vanta contatti e affinità con i grandi della Valley, garantendo un’unione che andrà presumibilmente oltre Trump. D’altronde, prima della Convention repubblicana del 2024, Musk avrebbe detto al futuro presidente che avere Vance come vice sarebbe stato una “buona assicurazione” in caso di un altro attentato nei suoi confronti.