Il mito della frontiera rivive nella nuova corsa allo spazio
Un concetto, nato come giustificazione dell’eccezionalismo americano, rinasce come progetto comune in grado di trascendere i confini nazionali—e l’orbita terrestre.
Pochi concetti sono associati alla storia di una nazione in modo così vivido come lo è il mito della frontiera americana—la graduale ed entusiasta espansione dei coloni europei verso i territori inesplorati dell'ovest del continente tra il XVII e il XX secolo. Libri, film e serie TV ne hanno catturato ripetutamente l'essenza nel corso del XX e del XXI secolo, dalla iconografia del cowboy a cavallo a quella meno edificante rappresentata dal colonialismo e dalla sottomissione delle popolazioni native.
Il termine è tuttavia un'invenzione relativamente recente rispetto alla cornice temporale entro cui tendiamo ad identificare il fenomeno. Il primo a definirlo come lo intendiamo oggi fu infatti un giovane Professore associato dell'Università del Wisconsin, Frederick Jackson Turner. Nel 1893, Turner formulò la sua tesi (The Significance of the Frontier in American History) in un discorso letto davanti all'American Historical Association di Chicago in occasione della Fiera Mondiale Colombiana—istituita per commemorare i 400 anni dalla scoperta dell'America. Secondo Turner, la forza che aveva plasmato gli americani in un unico popolo era stata proprio la frontiera del Midwest e del Far West.
Conquistando con le proprie forze quello che fino a quel momento era stato fondamentalmente un continente vergine, i coloni si erano finalmente emancipati dalla cultura feudale europea. In breve, la stessa autosufficienza pragmatica, lo spirito civico egualitario e persino la coscienza nazionale stessa associata con l’America moderna, nascevano da questo sforzo comune indirizzato a domare un ‘continente selvaggio’. Nelle parole di Turner stesso, gli Stati Uniti erano un Paese idealmente fatto da immigrati «fusi in una razza mista, inglese né per nazionalità né per caratteristiche». Un immaginario retoricamente entusiasmante, malgrado Turner evitasse accuratamente di includere nel suo saggio anche le conseguenze che tale spinta espansionistica aveva comportato per le popolazioni native del continente.
Turner, tuttavia, non parlava della conquista dell’ovest come di un fenomeno in corso, ma di uno ormai arrivato alla sua inevitabile conclusione. Solo tre anni prima, l'Ufficio del Censimento aveva concluso che non esisteva più una linea di frontiera tra le zone colonizzate dagli americani di origine europea e quelle che non lo erano. Non esisteva più, dunque, un luogo dove trovare nuove opportunità o sfuggire all'oppressione. «La frontiera è scomparsa» chiosava Turner, «e con la sua scomparsa si è chiuso il primo periodo della storia americana».
In un curioso e inaspettato sviluppo degli eventi, Turner stesso rigettò in seguito questa idea proprio mentre iniziava a guadagnare trazione nella cultura americana. Il suo successo era presto detto; per la società civile statunitense, il mito della frontiera giustificava ‘scientificamente’ e con strumenti quasi Darwiniani il successo e l’eccezionalismo americano, che fino ad allora era stato invece inteso come il risultato deliberato della provvidenza divina. Turner, tuttavia, cominciò ad osservare come le comunità rurali e urbane che popolavano il Midwest americano, da cui aveva tratto ispirazione, non subissero affatto la pressione dell'ambiente geografico in cui vivevano, uniformandosi con le altre comunità sparse nell'ovest. Tali insediamenti mantenevano invece le qualità culturali che si erano portate dietro dal vecchio continente.
Trent’anni dopo, Turner aveva ormai abbandonato l’idea che l’ambiente avesse in qualche modo plasmato la cultura americana, riconoscendo invece nel Paese quasi la rappresentazione ideale di quello che sarebbero potuti essere gli ‘Stati Uniti d’Europa’, con comunità culturalmente variegate, ma tenute insieme in modo pacifico da una condivisione di ideali e istituzioni federali. Quello che Turner non avrebbe probabilmente potuto immaginare, è il modo in cui la sua idea si sarebbe evoluta nel tempo, superando il mito del Far West e della colonizzazione del continente per reincarnarsi in una nuova sfida dello spirito americano: la corsa allo spazio.
Oggi tendiamo a derubricare la Space Race tra gli anni Sessanta e Settanta come un’altro elemento della competizione militare e tecnologica degli anni della Guerra Fredda. I sovietici erano partiti in netto vantaggio rispetto agli americani mettendo in orbita il primo satellite artificiale, lo Sputnik (1957). Non è quindi una sorpresa che in un clima simile, ‘lo spazio’ e in particolare la sua conquista, figurassero in modo prominente in uno dei più celebri discorsi del futuro Presidente John F. Kennedy, quello sulla ‘La nuova frontiera’ (The New Frontier).
I legami con l’immaginario creato da Turner e da settant’anni di libri, cinema e televisione prodotti sull’iconografia del West, erano abbastanza evidenti nel testo pronunciato da JFK alla Convention nazionale dei Democratici del 1960: «I vecchi pionieri rinunciarono alla loro sicurezza, al loro comfort, e talvolta alle loro vite, per costruire un nuovo mondo qui nell’ovest. [...] Alcuni dicono che queste sfide sono ormai finite, che tutti gli orizzonti sono stati esplorati, che tutte le battaglie sono state vinte. Che non esiste più una frontiera americana. [...] E oggi, ci troviamo sull'orlo di una nuova frontiera, [...] fatta di opportunità e pericoli sconosciuti. [...] Oltre quella frontiera ci sono aree inesplorate della scienza e dello spazio [...]. L’intera umanità attende la nostra decisione. [...] E non possiamo tradire quella fiducia, come non possiamo rinunciare a provare».
Semanticamente, il discorso collegava tra loro sia la già citata frontiera che la scienza moderna stessa, definita come la ‘frontiera senza fine’ da Vannevar Bush, l'advisor scientifico del presidente Truman, nel 1945 (Science, The Endless Frontier). Kennedy aggiungerà enfasi a questa nuova fase per la scienza e l’ingegno americano con un altro celebre discorso (We Choose to go to the Moon) pronunciato allo stadio della Rice University di Houston, in Texas, nel 1962. Huston, in particolare, il luogo dove sarebbe sorto il futuro Centro di controllo missione, diventava nel discorso di Kennedy sia il punto di arrivo dei vecchi coloni che quello di partenza per la conquista delle stelle: «[Huston] che un tempo era l'ultimo avamposto della vecchia frontiera verso il West, diventerà il punto più avanzato della nuova frontiera della scienza e dello spazio».
Per Kennedy, il riferimento allo spirito pionieristico della nazione, in questo caso, aveva un aspetto più pratico. Il Presidente mirava infatti a finanziare un programma che avrebbe avuto come scopo quello di portare l’uomo sulla luna entro la fine del decennio, ma secondo un sondaggio di Gallup di un anno prima, il 58% del pubblico americano era contrario a un uso simile dei fondi federali.
Tuttavia, il discorso ebbe l’effetto sperato. Il riferimento alla frontiera, fuso con il romantico desiderio di esplorare lo spazio, consentì a Kennedy di trasformare il cosmo nella mente dell’opinione pubblica in un progetto collettivo. Non più il territorio d’interesse esclusivo di ingegneri e scienziati, ma prima di tutto dei cittadini, americani e non, che venivano proiettati verso un futuro di conquista pacifica, in cui sia occidente che blocco comunista avrebbero potuto collaborare.
A oltre sessant’anni dal discorso di JFK, parte di quell’ethos è rimasto. Negli anni, lo spazio si è trasformato in uno strumento diplomatico, ad esempio attraverso missioni congiunte come quella Apollo–Soyuz (1975), in cui due tipologie di navetta, una sovietica e l’altra americana, attraccarono l’una all’altra nella prima missione collaborativa tra due Paesi. Lo sviluppo di nuovi vettori, come lo Space Shuttle (1981-2011), ha permesso di operare con maggiore facilità nell’orbita bassa, consentendo la realizzazione di progetti congiunti a lungo termine con agenzie spaziali di tutto il mondo, come quello della Stazione spaziale internazionale (ISS) operativa ormai dal 2000.
Il ritorno della guerra in Europa e l’ombra dell’imperialismo cinese nel Pacifico potranno avere momentaneamente reindirizzato la nostra attenzione su questioni geopolitiche più immediate. Ciò non toglie che oggi siamo nuovamente vicini a tornare sulla luna. Nel 2022 ha infatti avuto inizio la prima fase delle missioni lunari Artemis—che dovrebbero portare entro il 2026 al primo allunaggio con equipaggio umano dal 1972.
Si tratta di una missione che vede la collaborazione della NASA, dell’Agenzia spaziale europea (ESA), canadese (CSA) e giapponese (JAXA). Lo scopo è quello di rendere possibili future missioni umane oltre l’orbita terrestre, soprattutto verso Marte. Forse, il pianeta rosso rappresenterà domani la prossima grande avventura umana, un altro capitolo significativo nella ricerca di nuovi orizzonti. Questa volta, tuttavia, potrebbe essere la prima grande sfida umana collettiva, prima ancora che americana. Difficilmente Frederick Jackson Turner avrebbe mai potuto immaginare—o sperare—in un'evoluzione tanto radicale del suo mito della frontiera, oltre un secolo fà.