Il legame tra Bob Dylan e il folk
L’uscita del film “A Complete Unknown” stimola a riconsiderare il rapporto del cantautore con la cultura musicale da cui proviene.

Il folk è tornato e non cambierà mai
di Benedetta Agrillo
James Mangold è l’uomo da ringraziare per aver fatto parlare di nuovo della musica folk nel 2025. Regista del biopic su Bob Dylan A Complete Unknown, appena uscito nelle sale italiane, è riuscito a realizzare un film che mescola leggenda e realtà, raccontando una fase fondamentale della carriera dell’artista: la svolta elettrica.
Nel 1965 Dylan sale sul palco del Newport Folk Festival, ma invece della sua chitarra acustica imbraccia una Fender Stratocaster, apparentemente voltando le spalle alla musica folk, tra i fischi delusi dei suoi fan.
Il folk in America è stato il genere che nella prima metà del Novecento, ha regalato una colonna sonora alla classe operaia, che affrontava crisi, perdita di posti di lavoro, lotte sindacali e viaggiava sui treni merci.
In alcuni degli anni più difficili della storia statunitense del XX secolo, il folk è stata la voce itinerante di chi aveva nostalgia della Golden Age of America, di una vita più semplice e di valori condivisi da tutta la nazione.
Una musica che sembrava appartenere a una generazione passata, finché un giovane ragazzo con la chitarra in spalla non è arrivato a New York dalle fredde strade del Minnesota.
Nel 1961 gli americani stavano rivedendo i loro simboli e le loro priorità; le lotte per i diritti civili invadevano le piazze, con personaggi come Martin Luther King e Malcom X a guidare la lotta e a dare voce al popolo. Il folk non poteva più limitarsi a cantare vecchie storie della Dust Bowl, ma doveva adattarsi a una nuova realtà per mantenere il proprio status di musica di protesta.
Il testimone è stato raccolto da un giovane Bob Dylan, che in quell’anno arriva a New York dal freddo Minnesota, con una chitarra e un’agenda piena di parole che diventeranno testi iconici, emblemi di una generazione.
Tuttavia, le parole di quel ragazzo del Midwest non erano che il frutto dell’ispirazione di chi aveva fatto la storia del folk prima di lui.
Woody Guthrie, il cantautore dell’Oklahoma, con la sua voce polverosa e una chitarra su cui campeggiava la scritta This Machine Kills Fascists, diede voce agli eroi dimenticati della società. Una delle sue ballate più celebri, Two Good Men, racconta la storia di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, i due anarchici italiani ingiustamente condannati a morte nel 1927. Guthrie cantò anche di tragedie come quella narrata in 1913 Massacre, che rievoca la strage dell’Italian Hall in Michigan, dove persero la vita 73 persone. Le sue canzoni raccontano le storie di uomini e donne privati di una voce o dimenticati dalla storia.
Dylan scoprì la musica di Woody Guthrie durante gli anni universitari a Minneapolis e ne rimase folgorato. Come ogni vero artista, ne rubò melodie e concetti, trasformandolo in un simulacro della musica folk, un circolo di cui voleva entrare a far parte anche lui.
Insieme a Guthrie ci sono altri artisti che hanno prestato la loro voce all’opposizione popolare degli anni Sessanta in America, tra cui Pete Seeger; l’uomo che ha regalato al folk il Newport Folk Festival. È grazie a lui che in questa piccola cittadina del Rhode Island si era creato uno spazio dove per qualche giorno folkman, bluesman, cantanti country e bluegrass di tutto il Paese, potessero portare quella musica al loro pubblico.
Che fosse Seeger con il suo il banjo magico mentre chiede Which side are you on boy?, o Ramblin’ Jack Elliott e Derroll Adams che cantano di sigarette, whiskey e donne selvagge, questi musicisti avevano fatto breccia nel cuore di un Dylan ventenne, con delle sonorità appartenenti a un’altra epoca.
Come Bob Dylan, tanti altri ragazzi trovavano nel folk un’energia che si adattava perfettamente alla loro voglia di esprimere collettivamente le proprie idee. Sembrava quasi un controsenso vedere ragazzi poco più che adolescenti entusiasmarsi così tanto per una musica che celebrava la tradizione americana. Eppure, artisti come Bob Dylan, Joan Baez e Joni Mitchell erano riusciti a dare un nuovo volto al folk, trasformandolo in una forma di resistenza e di riflessione, parlando direttamente alle inquietudini e alle speranze della loro generazione con messaggi di protesta, cambiamento e lotta sociale.
Negli anni Sessanta, il folk ha dato voce alle incertezze della gioventù, passando successivamente il testimone al rock and roll come nuova colonna sonora di una nuova era di ribellione; ma oggi, con il mondo in una morsa di tensione, ci si chiede se possa emergere un nuovo movimento musicale in grado di canalizzare e amplificare le istanze di chi cerca giustizia e trasformazione.
Quella collettività per cui cantava Woody Guthrie, legata alla tradizione sindacale, non esiste più, e nelle piazze più che speranza c’è rabbia.
Non resta che una scena di Bob Dylan, che tra le proteste di Pete Seeger e Alan Lomax, fa urlare la sua chitarra elettrica nel luogo che era il tempio della musica folk. Questo genere non è morto, ma è rimasto "congelato" a quel momento, e così verrà ricordato per sempre.

Interpretare Bob Dylan
di Pietro Carignani
“Let go of it, Bobby. You won.
What did I win Joan?
Freedom. From all of us and our shit”
Questo scambio di battute è tra i conclusivi e più significativi di A Complete Unknown. A parlare sono lo stesso Dylan (Timothée Chalamet) e Joan Baez (Monica Barbaro), in una scena che racchiude a pieno l’aspetto principale che il film propone del suo protagonista: la volontà di perseguire il suo percorso artistico in maniera indipendente, da tutto e da tutti. Il film riprende, in buona parte, la narrazione di sé stesso che Dylan ha adottato negli ultimi decenni della sua lunghissima carriera; quella di un uomo in aperta ribellione contro le aspettative poste su di lui dal pubblico, dalla stampa, dalla società tutta. Un artista ambivalente in una serie di aspetti, a partire dal suo rapporto con la cultura con cui si è formato, quella del folk.
A Complete Unknown rappresenta perfettamente come l’opera di Bob Dylan sia stata il canto del cigno della musica folk. Se è vero che il cantautore di Duluth ha portato il genere a vette di popolarità e creatività incomparabili, ne ha anche mostrato i limiti storici di fronte a un mondo in cambiamento e pronto ad abbracciare sonorità diverse. Se il primo Dylan imitava spudoratamente le ballate di Woody Guthrie, ben presto il suo stile verrà influenzato dall’ascesa della musica rock, ibridandosi in ritmi più elettrici e testi meno convenzionali.
Anche dal punto di vista dell’impegno sociale, Dylan ha sublimato e riadattato la canzone di protesta tipica della cultura folk, ma allo stesso tempo ne ha rigettato le implicazioni più puramente politiche. L’autore delle ballate che hanno fatto da colonna sonora ai movimenti radicali degli anni Sessanta (tra cui “Masters of War” e “The Times They Are A-Changin’”) è lo stesso che ha sempre rifiutato il ruolo di “bardo” della rivoluzione in cui molti lo identificavano. Lo stesso che ha spesso trattato con sufficienza l’impegno politico caratteristico dei cantautori folk della generazione precedente.
Sono le incongruenze di una figura che dentro alle categorie non ha mai voluto starci. Voce riluttante di una generazione che invocava il cambiamento, erede individualista di una cultura musicale radicale e di protesta, Dylan nelle contraddizioni ci si è sempre trovato a vivere. E a veder bene, è contraddittorio anche il suo modo di raccontarsi: la sua autobiografia, le sue (rare) interviste, sono piene di incoerenze, di dichiarazioni antitetiche. È difficile ascoltare Dylan parlare di sé stesso senza avere l’impressione di essere presi in giro. Piuttosto che raccontare gli avvenimenti per come sono andati, sembra voler narrare una storia diversa ogni volta, smentendo il sé stesso del passato e alimentando l’aura enigmatica intorno alla sua figura.
Si crea così una scissione tra il Bob Dylan reale e quello percepito. O meglio, nascono tante interpretazioni diverse della sua poetica, spesso contraddittorie, ma quasi tutte valide. Ci sono il cantastorie della strada e il compositore radicale, il musicista sempre pronto a innovarsi e il custode di ballate senza tempo, per qualcuno esiste anche il Dylan conservatore[1]. A uno sguardo più attento, tuttavia, appare evidente una coerenza artistica, e ha a che fare con la natura stessa della musica folk: personale e collettiva, eterna e mutevole allo stesso tempo.
La canzone non appartiene solo a chi la inventa, ma è rivista e interpretata nel corso del tempo da artisti diversi che la eseguono con nuove prospettive. Come lo stesso Dylan scrive in Chronicles, la sua autobiografia: “canzoni che la gente si passa di mano in mano”. Il fatto che, in A Complete Unknown, Timothée Chalamet canti in prima persona i brani di Dylan è, in questo senso, una scelta artistica perfettamente coerente.
[1] https://hillsdalecollegian.com/2021/03/bob-dylans-conservative-anthems/