Il Kennedy Center e la vendetta di Donald Trump
Come Trump ha trasformato il Kennedy Center da simbolo dell’élite culturale a strumento della sua guerra personale contro l'industria dell'intrattenimento e la cultura “woke”

Quella tra Trump e il Kennedy Center di Washington D.C. è una storia che non inizia lo scorso febbraio, quando il presidente ha unilateralmente preso possesso dell’istituzione, licenziando i membri del board che la governa e sostituendoli con nomine proprie, tra cui la sua capo di gabinetto Susie Wiles e la moglie di de suo vice Usha Vance. Poco dopo è stato incoronato quale nuovo presidente (chairman) dell’istituzione .
La storia inizia qualche mese dopo l’inizio del primo mandato presidenziale di Trump, nel dicembre 2017, in seguito al raduno neonazista di Charlottesville, accompagnato da un attacco di un suprematista contro alcuni manifestanti. La reazione di Trump, citata testualmente, fu “ci sono colpe da entrambe le parti (…), ci sono brave persone in ambo i lati” e portò tre vincitori del premio annuale del Kennedy Center, tra cui Lionel Ritchie, Norman Lear, Carmen de Lavallade, a rifiutare di partecipare al cerimonia preliminare alla Casa Bianca. Questa fu annullata e non venne più organizzata per il resto della presidenza. L’evento era il culmine di quello che Trump ha sempre visto come un sentimento di rifiuto delle élite culturali nei suoi confronti. Per il suo secondo mandato non si è fatto sfuggire l’occasione di prendere possesso di un’istituzione che secondo lui l’aveva rifiutato.
Il Kennedy Center per lui non è solo un centro culturale, ma un luogo simbolo di quell’elitismo che una volta veniva descritto come radical-chic. Miliardari filantropi a capo di un’istituzione in teoria politicamente neutrale che amministra una cultura fruita principalmente da ricchi liberal. Non dovrebbe sorprendere la soddisfazione che Trump ha espresso su ogni canale appena ha scoperto una nuova area grigia di potere presidenziale, quella che gli ha permesso di licenziare senza alcun preavviso membri del consiglio, trasformando l’istituzione in una dependance del suo ufficio di comunicazione. Ora il board sarà comunque pieno di miliardari, ma amici (e donatori), a capo di un’istituzione diretta dall’esecutivo, con un’offerta culturale in linea con le nuove parole d’ordine della propaganda repubblicana.
Come Karoline Leavitt, la sua portavoce, ha dichiarato, infatti, “Il Kennedy Center ha imparato a proprie spese che se segui l’ideologia woke, finirai in rovina. Il presidente Trump e i membri del consiglio appena nominato sono determinati a ricostruire il Kennedy Center affinché torni a essere un’istituzione fiorente e altamente rispettata, dove tutti gli americani, e i visitatori da tutto il mondo, possano godere dell’arte nel rispetto della grande storia e delle tradizioni americane.” Trump su Truth Social è stato un po’ più diretto, scrivendo “NO MORE DRAG SHOWS, OR OTHER ANTI-AMERICAN PROPAGANDA — ONLY THE BEST”, inserendo il suo prendere possesso del Kennedy Center nel contesto della sua guerra culturale contro tutto ciò che i repubblicani considerano woke o inclusivo, che metta in luce aspetti controversi o oscuri della storia o società americana, che venga visto come un atto di accusa nei confronti degli americani bianchi.
A proteggere gli americani da boa di piume e casting multietnici, Richard Grenell, inviato speciale della Casa Bianca e da febbraio Presidente a interim del Kennedy Center, fresco dal successo nell’ottenere il rilascio di Andrew e Tristan Tate in Romania, dove erano accusati di stupro e traffico di esseri umani. “RIC, WELCOME TO SHOW BUSINESS!”, ha postato Trump dopo la nomina. Grenell ha subito capito cosa ci si aspettasse da lui. Lo ha capito suo malgrado anche la musicista Yasmin Williams, nota anche per le sue critiche a Trump, che durante la sua esibizione al Center si è dovuta confrontare con un gruppo nutrito di contestatori. Si è scoperto poi che erano membri dei Log Cabin Republicans, la non profit che rappresenta repubblicani LGBTQ, a cui erano stati distribuiti 50 pass per lo show proprio dall’ufficio di Grenell. Il messaggio è chiaro, il Kennedy Center è ancora una casa per gli artisti, ma questi non dovrebbero sentirsi obbligati a venire. Diverse produzioni storiche hanno quindi deciso di cancellare i loro show. Hamilton ha cancellato il programma per il 2025, Angels in America, The Color Purple e Rent non sono più previsti, diversi artisti di West Side Story e Les Misérables hanno dato forfait. Una fuga silenziosa, ma eloquente, che però non disturba il sonno del nuovo management.
La prima riunione del nuovo consiglio, di cui il New York Times ha ottenuto una registrazione, è stata infatti una lunga dimostrazione di questo nuovo corso. Il chairman ha diretto i lavori con un comizio di un’ora, completo di ricordi dei film di Stallone, elucubrazioni su se sia meglio il Fantasma dell’Opera o Les Misérables, sul perché non si possa onorare Pavarotti o Presley al Kennedy Center invece dei radical lunatics fino ad ora scelti. Commovente il passaggio su come un tempo non fosse per nulla convinto di voler vedere un musical di Broadway come Cats, ma che a fargli cambiare idea fu la vista dei “gorgeous bodies” delle ballerine. Al che la domanda: ci sono musical che non siano “totally woke”? La risposta è sì, basta non prevedere show che siano affiliati al sindacato degli attori di teatro Actors’ Equity. Poi, il Kennedy Center for the Performing Arts perchè dovrebbe onorare solo artisti tradizionali. Trump ha suggerito che si possano onorare anche personaggi dello sport, della politica, e, perché no, dell’industria. Dopotutto lui stesso ha descritto il suo fare impresa come arte. Quindi perché non includere nella lista Steve Wynn, un donor repubblicano, soprattutto ora che la moglie è stata nominata nel consiglio del Kennedy Center?
Questa volta non solo Trump sarà presente al Kennedy Center Honours, ma ne sarà il presentatore e direttore artistico. Lo ha annunciato lui stesso a inizio agosto in conferenza stampa, quando ha persino letto la lista degli artisti che saranno onorati il prossimo dicembre. Un atto che chiarisce il nuovo stato delle cose: è lui in controllo, in quella che sembra sempre più una vendetta personale. Lui ha ricevuto le proposte di artisti da onorare quest’anno, lui ha rigettato i “wokesters”, lui ha redatto la lista finale, che certifica, se proprio qualcuno non se ne fosse accorto, la sua ossessione per gli anni ’80. La leggenda del contry George Strait, la regina della disco Gloria Gaynor, la band rock Kiss, l’attore e contante di musical Michael Crawford e Sylvester Stallone. Proprio quest’ultimo, insieme a Mel Gibson e Jon Voight, sarà parte di una squadra di “ambasciatori” MAGA a Hollywood, gli “occhi e orecchie” del presidente nell’industria dell’intrattenimento.
Per Trump infatti quel mondo non è solo arte, è il simbolo di una classe che lo ha da sempre guardato dall’alto in basso. Lui ha trasformato quindi la sua battaglia personale contro di esso in una guerra culturale a difesa dell’americano comune e degli assiomi con cui molti sono cresciuti in passato: il patriottismo come valore assoluto, la famiglia tradizionale come fondamento, l’arte come celebrazione. La riforma del Kennedy Center, o Melania Trump Center se una proposta al momento in Congresso verrà approvata, è sì una vendetta ma non è solo provocatoria, riscrive completamente il canone. I suoi palchi non saranno più luoghi di contestazione e sperimentazione, ma pulpiti di una narrazione artistica unica e semplificata, ad uso e consumo del nuovo pubblico MAGA.